Capitolo 3

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Winter

Ero ancora immersa nei miei pensieri mentre strofinavo l'ultimo piatto. Mia madre era lì accanto a me, silenziosa ma con quel suo sguardo severo che parlava più delle parole. La sua punizione era stata chiara: lavare i piatti per aver risposto male a Mark. Non che mi importasse granché, ma stavo cercando di tenere il broncio senza essere troppo evidente. Perché proprio io dovevo avere una madre così severa?

«Non è difficile comportarsi educatamente, Winter», disse mia madre, spezzando il silenzio. «Se non lo fai, non sarà facile per nessuno.»

Ignorai la sua frecciatina e finii di sciacquare il piatto, concentrandomi più sul sapone che scivolava via sotto l'acqua corrente che su di lei. L'avrei superata anche stavolta, come tutte le altre.

«E ora, vorrei che tu portassi questa a Kai», disse mia madre, passandomi la felpa che lui aveva lasciato sulla sedia durante la cena. «Non voglio che resti qua sotto.»

La guardai incredula. «Seriamente? Non può prendersela da solo? Non sono una sua domestica.»

Lei mi fulminò con lo sguardo, il che significava che non c'era margine di discussione. «Winter, fallo e basta. Non è un ragazzino. E tu non rispondere.»

«Beh, a quanto pare, sembra che lo sia», borbottai sottovoce, ma presi comunque la felpa.

Sbuffai pesantemente e, senza aggiungere altro, mi diressi verso le scale. Kai mi dava già sui nervi, e ora dovevo pure andargli a portare le sue cose come una serva. Perfetto.

Arrivata davanti alla porta della sua camera, non mi presi nemmeno la briga di bussare. Spinsi la porta e mi fermai subito sulla soglia. Kai stava colpendo furiosamente un sacco da boxe, mani e piedi che si muovevano in una coreografia brutale e precisa. Era a petto nudo, la sua pelle lucida di sudore. Ogni muscolo si tendeva con forza a ogni colpo, la camicia Ralph Lauren che aveva indossato a cena ora era sparita, e tutto di lui emanava potenza e rabbia. I suoi addominali scolpiti si contraevano a ogni movimento, e i suoi bicipiti si gonfiavano mentre sferrava pugni rapidi e violenti.

Per un attimo rimasi lì, immobile. Non si era accorto della mia presenza. I suoni dei suoi colpi rimbombavano nella stanza, come se ogni colpo fosse diretto a qualcosa di invisibile che solo lui poteva vedere. La sua concentrazione era totale.

Schiarii la gola, tossendo leggermente, più per cercare di non sembrare una spettatrice casuale che altro.

Kai si fermò di colpo, come un predatore che ha appena sentito il rumore della preda. Si voltò verso di me con uno sguardo scuro e rabbioso. Le sue labbra si piegarono in un ghigno, e in pochi passi mi fu di fronte.

Senza dire una parola, chiuse la porta dietro di me con un colpo secco della mano, intrappolandomi tra la porta e il suo corpo sudato. Il suo petto si alzava e abbassava pesantemente, il respiro ancora accelerato dall'allenamento. Il suo odore di pelle e sudore mi travolse.

«Che diavolo ci fai qui?», ringhiò, la voce bassa e pericolosa. Gli occhi verdi mi trapassavano, quasi mi immobilizzavano.

Deglutii, sentendo un nodo in gola. «Tua... tua felpa», risposi, alzando il capo e cercando di mantenere una parvenza di sicurezza, ma la mia voce tremava leggermente. «Sono venuta a riportartela. Mia madre ha detto che non la voleva in cucina.»

Kai rise, ma non c'era divertimento nel suo tono. Mi guardò da capo a piedi, come se fossi una scocciatura irrilevante. «Guardati. Stai tremando», sussurrò, avvicinandosi ancora di più. «Ti faccio così tanta paura?»

La sua voce era come un veleno dolce che si infilava sotto la mia pelle. Mi sforzai di rimanere ferma, di non arretrare. «Io non... tremo», dissi, anche se sapevo benissimo che la mia voce tradiva la mia insicurezza.

Kai inclinò la testa di lato, scrutandomi con quegli occhi che sembravano volermi smontare pezzo per pezzo. «Sei proprio coraggiosa, eh? Ti presenti nella mia stanza senza bussare, e poi provi pure a fare la dura.»

Mi sentivo come se fossi caduta in una trappola, ma non volevo d di certo dargliela vinta. «Non sapevo che ci fossero regole per entrare qui», ribattei, stringendo i pugni per non sembrare troppo debole.

Lui sorrise, un sorriso che non era per niente rassicurante. «Si bussa prima di entrare nella stanza di un adulto, bambina. Ricordatelo la prossima volta.»

Mi sentii piccola e umiliata. Prima che potessi dire altro, lui mi strappò la felpa dalle mani con un gesto rapido, poi si girò verso la porta e la aprì bruscamente, indicando l'uscita. «Ora vattene. Non entrare più nella mia stanza senza permesso.»

Non c'era nulla da fare, e, sebbene dentro di me ribollissi di frustrazione, obbedii. Mi girai in fretta, uscii dalla stanza e sentii la porta chiudersi rumorosamente dietro di me.

Salii le scale di corsa fino alla mia stanza, il cuore che batteva ancora all'impazzata. Mi appoggiai alla porta, cercando di capire cosa fosse appena successo. Una parte di me era furiosa con lui, con la sua arroganza, la sua sicurezza di poter fare e dire qualsiasi cosa. Eppure, un'altra parte di me non riusciva a scacciare dalla mente il suo sguardo, così penetrante, così... pericoloso.

Mi lanciai sul letto, lasciando che i miei pensieri vagassero. Tremavo ancora, ma non era solo rabbia. Era anche qualcosa di più complicato, qualcosa che non volevo ammettere neanche a me stessa.

TWISTED SHADOWSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora