Opal
Vivevo nei quartieri dorati di Beverly Hills, tra le case dai giardini perfetti, le piscine scintillanti e i vicini che sembravano usciti da una rivista patinata. A vederla da fuori, la mia vita sembrava perfetta, ma la verità era un'altra. Quando varcavo la soglia di casa, il peso dell'apparenza si frantumava, e mi ritrovavo immersa in un caos che mi inghiottiva. Ero sola. Totalmente e irrimediabilmente sola.
Mio padre entrava e usciva come se questa non fosse nemmeno casa sua. Quando c'era, non faceva altro che portare con sé donne sconosciute o nascondersi dietro una bottiglia di whisky. Mi ricordavo di quando ero piccola, quando lui era diverso. Ricordo ancora quel pomeriggio di primavera in cui mi portò a fare un giro in bicicletta. Sembrava felice, sereno. Ridevamo. Ma quel ricordo, seppur dolce, era come un vecchio film sbiadito; ora di quel padre restava solo un uomo in fuga da se stesso.
E mia madre... mia madre non era meglio. Non la vedevo quasi mai sobria. Le pillole erano il suo rifugio, la sua unica via di fuga da una vita che non aveva più controllo. Ogni volta che entravo in casa e la trovavo stesa sul divano, con lo sguardo perso nel vuoto e il vago odore di alcool mescolato agli psicofarmaci, una parte di me moriva. Avevo smesso di cercare spiegazioni. Ero abituata a tutto questo. Mi dicevo che dovevo esserlo. Ma non lo ero mai del tutto. Non si può davvero abituarsi a non essere parte di una famiglia.
Non avevo nessuno. Nessuno che mi aspettasse quando rientravo, nessuno che mi chiedesse com'era andata la giornata. Solo il silenzio. Ero l'unica persona sobria in una casa di fantasmi. Per questo, i miei amici erano tutto. Non lo sapevano, ma loro erano il mio rifugio, la mia ancora.
Quella sera, mentre scendevo le scale per andare in cucina, la solita inquietudine mi attanagliava lo stomaco. Sentivo già il rumore di bottiglie che tintinnavano sul pavimento. Mia madre, come al solito, stava parlando da sola. Non c'era nessun interlocutore, solo il muro davanti a lei. La sua voce era roca, spezzata dalle risate fuori luogo, mentre oscillava leggermente come una barca alla deriva. Era una scena che conoscevo a memoria. Il degrado era diventato la nostra normalità. E io non riuscivo più a sopportarlo.
La osservai per un attimo dalla porta della cucina. Lei non si accorse nemmeno della mia presenza. Il vestito sgualcito, i capelli spettinati, il trucco sbavato. Se la madre che ricordavo esisteva ancora, era nascosta da qualche parte dietro quell'ombra confusa e impasticcata.
Mi feci coraggio e entrai. «Mamma...»
Lei alzò lo sguardo, ma era come se non mi vedesse davvero. «Che vuoi?» borbottò, continuando a ridacchiare e stringendo una bottiglia vuota tra le mani.
Respirai a fondo, cercando di mantenere la calma. «Volevo solo dirti che domani sera vado a una festa a casa di Kai. Non tornerò tardi.»
Mia madre scattò in piedi con una velocità che mi sorprese, barcollando appena. «A casa di chi? Kai? Quello stronzetto viziato che ti frequenti?»
Sapevo che stava per iniziare. Ogni volta che cercavo di parlare con lei, finiva così. Insulti, rabbia, delirio. Ma nonostante sapessi cosa stava per succedere, non ero mai pronta davvero. Mi irrigidii. «Sì, Kai. E non è uno stronzetto viziato, è un mio amico.»
La risata che uscì dalla sua bocca era agghiacciante, vuota, tagliente. «Amico? Non farmi ridere, Opal. Tu non hai amici. Chi ti vuole vicino? Sei solo una stupida ragazzina che pensa di essere migliore degli altri perché vive in questa cazzo di villa. Ma sai cosa sei davvero? Una fallita. Una nullità. Esattamente come me.»
Quelle parole mi colpirono come uno schiaffo in pieno volto. Le sentivo come una morsa intorno al cuore, stringendo fino a farmi male. Aveva detto cose simili altre volte, ma quella sera mi fecero più male del solito. Forse perché, in fondo, temevo che avesse ragione.
«Smettila, mamma,» le risposi, cercando di mantenere la voce ferma. Ma tremava. «Non sai di cosa stai parlando.»
«Oh, non lo so? Non sai niente, Opal. Pensi di essere forte, di essere furba. Ma guarda dove sei finita. Sei uguale a me. Una schifosa nullità. Ti fai schifo da sola, ammettilo!»
Il sangue mi ribolliva nelle vene. Cercai di contenermi, di non reagire. Ma c'era solo tanto vuoto, troppo vuoto. E a quel punto, esplosi. «Non sono come te!» gridai, la voce spezzata dall'angoscia. «Non lo sarò mai! Non mi ridurrò come te, a vivere la mia vita in un casino di pillole e alcol. Non lo permetterò.»
Lei mi fissò, il sorriso scomparso dal suo volto. Per un attimo, sembrò vacillare. Ma poi si avvicinò, e le sue parole si fecero velenose. «Tu sei già come me. Fingi di essere diversa, ma sei solo una maschera. Una maschera che cadrà presto.»
Non potevo più sopportarlo. Le lacrime premevano per uscire, ma non volevo darle la soddisfazione di vedermi piangere. Non potevo crollare davanti a lei. Mi voltai e corsi via, le sue urla che mi seguivano fino in camera mia.
«Scappa, Opal! Scappa come fai sempre! Non cambierà niente!»
Chiusi la porta della mia stanza dietro di me e mi lasciai scivolare sul pavimento. Le mani strette sulle ginocchia, il respiro pesante, mentre le lacrime finalmente iniziarono a cadere. Crollai. Ero abituata a tutto questo, o almeno così mi ripetevo, ma in quel momento mi sentivo come una bambina indifesa.
Non c'era nessuno. Nessuno che potesse salvarmi da quel vuoto.
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TWISTED SHADOWS
RomansaWinter ha diciassette anni, un'età dove le regole scolpite nella pietra la fanno sentire protetta e le responsabilità sono il suo rifugio. Disciplina, studio, controllo: questi sono i suoi pilastri. Ma quando si trasferisce a casa del nuovo compagno...