Il rumore del silenzio

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Il sole non si era ancora alzato quando raggiunsi l'ospedale quella mattina. L'aria era fredda e tagliente, e ogni respiro mi graffiava la gola come vetri sottili. Le porte automatiche si aprirono davanti a me con un sibilo, accogliendomi nell'odore sterile del disinfettante. Il corridoio era silenzioso, rotto solo dal ronzio basso dei macchinari e dalle rare voci degli infermieri che si muovevano tra le stanze come ombre.

Non era ancora l'ora delle visite, ma ormai mi conoscevano tutti lì. Non servivano permessi, né sguardi di conferma. Ero una presenza costante, un fantasma che si aggirava tra le mura dell'ospedale ogni giorno, aspettando. Sperando. E adesso, tutto ciò per cui avevo pregato sembrava sgretolarsi tra le mani.

Quando arrivai davanti alla stanza di Lucy, una fredda sensazione mi avvolse, come se la temperatura fosse scesa di colpo. La porta era leggermente socchiusa, e da dentro provenivano dei sussurri concitati. Non osai entrare subito. Un'infermiera uscì, i suoi occhi scuri che si abbassarono non appena incrociarono i miei.

"Mi dispiace", mormorò, quasi in un sussurro, prima di allontanarsi.

Mi bloccai sulla soglia, incapace di respirare, mentre un vuoto gelido si apriva nel mio petto. Varcai la porta con passi lenti, come se ogni centimetro fosse un atto di tradimento. Il rumore delle macchine riempiva l'aria: bip insistenti e suoni metallici. Ma ciò che attirò la mia attenzione fu il silenzio assordante del corpo di Lucy, in quella stanza troppo spenta, in contrasto con la vitalità che una volta illuminava il suo volto.

Giaceva immobile nel letto, il viso pallido come la neve fresca. Le bende attorno alla testa erano macchiate di sangue, i tubi che le attraversavano il corpo si piegavano in linee contorte e innaturali. La sua pelle, che una volta risplendeva di vita e determinazione, ora sembrava priva di ogni calore, persa in un'ombra di quella che era stata.

Mi avvicinai con la lentezza di chi sta per avvicinarsi a una trappola, i passi trattenuti come se il pavimento fosse fatto di vetro. Mi inginocchiai accanto al letto, cercando disperatamente una scintilla, un movimento, qualsiasi segno che mi dicesse che lei era ancora lì, in qualche modo. Ma gli occhi di Hannah restavano chiusi, le sue labbra serrate in una linea silenziosa e vuota.

"Lucy ..." sussurrai, ma la mia voce si perse, soffocata dalle lacrime che mi riempivano la gola. Le presi la mano fredda, stringendola tra le mie.

Le ore che seguirono furono un vortice di volti sfocati, parole vuote e dolori che bruciavano come fuoco sotto la pelle. I medici entrarono e uscirono, le infermiere mormoravano tra loro. Parlavano di statistiche, di possibilità e di decisioni. Ma tutto ciò che riuscivo a sentire era il battito del mio stesso cuore, martellante e rabbioso.

Quando infine la realtà mi colpì con la forza di un pugno, mi ritrovai seduta nella sala d'aspetto, le mani tremanti che non riuscivano a smettere di torcersi. La voce del dottore era piatta, priva di emozione, mentre pronunciava le parole che avrebbero cambiato tutto.

"L'intervento è stato troppo complicato. L'emorragia... non siamo riusciti a fermarla."

Cercai di rispondere, ma le parole mi si spezzarono in gola. Mi limitai a fissarlo, la vista annebbiata, il petto stretto da un dolore insopportabile. "Cosa... cosa significa?"

"Significa che non ce la farà...l'unica cosa che la tiene in vita sono quei tubi collegati al macchinario"
Un silenzio assordante, niente di più, mentre Matty mi si stringeva addosso e le mie gambe cedevano sul pavimento freddo del corridoio.

Non ricordo come uscii dall'ospedale quel giorno. La pioggia cadeva sottile e costante, bagnandomi i capelli e il viso, mescolandosi alle lacrime che non riuscivo più a trattenere. Mi fermai davanti all'ingresso, il mondo che sembrava sfumare in un grigio indistinto, senza confini né direzioni. Hannah era morta. La mia migliore amica, la persona che avevo sempre considerato come una sorella, non c'era più.

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