Enigma

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Il giorno successivo all'incontro al cimitero, tutto sembrava ancora più strano di quanto già non fosse. Le parole di Ethan, il modo in cui mi aveva guardata, quel quasi-bacio sospeso tra di noi... Non riuscivo a smettere di pensarci. Ogni dettaglio era inciso nella mia mente, come una cicatrice che non voleva guarire.

Forse avrei dovuto parlarne con qualcuno. Forse avrei dovuto dire tutto a Matthew, o persino a Noah e William, ma ogni volta che mi ritrovavo faccia a faccia con loro, l'idea di confessare ciò che era successo tra me ed Ethan mi faceva sentire come se stessi tradendo qualcosa. O peggio, come se stessi rivelando un segreto che non mi apparteneva.

Così decisi di fare l'unica cosa che mi veniva naturale: ignorarlo. E ignorarlo voleva dire anche ignorare quel nodo stretto allo stomaco che mi avvolgeva ogni volta che pensavo a lui. Eppure, anche quando provavo a soffocare quel ricordo, Ethan trovava il modo di riaffiorare. Come un'ombra che non riuscivo a scrollarmi di dosso.

Le settimane passarono, e ogni incontro sembrava un gioco crudele del destino. Ethan si faceva vedere a casa dei miei cugini con la scusa di vedere Noah e William, o di aiutare Matthew con qualcosa. Non che avessero bisogno del suo aiuto, ma si presentava lo stesso, facendo esplodere la tensione ogni volta che entrava nella stanza.

Quella mattina, mi svegliai con il suono soffocato delle voci provenienti dalla cucina. Erano ormai diversi giorni che non andavo a scuola. Non riuscivo a trovare l'energia o la voglia di affrontare le persone, di fingere che tutto andasse bene. Matthew e i miei cugini avevano provato a convincermi a rientrare in classe, ma ogni volta li avevo ignorati o avevo trovato una scusa.

Mi alzai dal letto lentamente, sentendo il corpo pesante e stanco, anche se non avevo fatto altro che dormire e rimuginare. Mi infilai i jeans più larghi che avevo e una felpa di Matthew che mi cascava dalle spalle, poi mi avvicinai alla porta della camera per origliare.

"Spero che Jane stia bene..." era la voce di Matthew, bassa e preoccupata.

"Sta solo attraversando un momento difficile," rispose Noah con tono fermo. "Lucy le mancava più di quanto ci avesse detto. Dobbiamo darle tempo."

"No, Noah. È più di questo." La voce di Matthew era dura, rabbiosa. "Sta smettendo di mangiare, sta evitando di parlare con chiunque. Non è normale!"

"E cosa vuoi che facciamo?" intervenne William, il tono più pacato. "Costringerla? Lei è... Jane. Non la piegherai a forza."

Le parole di mio fratello mi scossero. Forse pensava che non stessi sentendo, ma ogni singola sillaba mi penetrava nel petto. Non era vero che non mangiavo. Solo... non avevo fame. O almeno, così mi dicevo. E poi, ogni volta che provavo a mandare giù qualcosa, mi sentivo male, come se il mio corpo stesse rifiutando qualsiasi tentativo di nutrirlo.

Feci un passo indietro, rientrando in camera e chiudendo la porta con un clic appena percettibile. Non avevo voglia di affrontare nessuno, tantomeno di sentire altre parole cariche di preoccupazione. Così mi infilai sotto le coperte, con la testa che pulsava e lo stomaco che brontolava in un muto lamento.

Quando finalmente decisi di uscire dalla stanza, era quasi l'ora di pranzo. Gli altri si erano riuniti in salotto, chiacchierando e ridendo. Il rumore delle loro voci mi avvolse come un'onda, facendomi sentire ancora più alienata da quella normalità che non riuscivo a condividere.

"Ehi, finalmente ti sei degnata di alzarti," mi provocò William con un sorriso sfacciato. "Pensavamo ti fossi trasformata in un eremita."

"Molto divertente," risposi, cercando di sorridere. Anche se non ci riuscivo davvero. Mi sedetti sul divano, cercando di ignorare il modo in cui Ethan mi fissava da sopra la tazza di caffè che teneva tra le mani. Notai ovviamente la ragazza al suo fianco e non nascosi il nervosismo nel vederla seduta sulla penisola posta al centro della cucina.

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