Capitolo 12 - Overdose

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ATTENZIONE:
Questo capitolo contiene argomenti che potrebbero andare a ledere alla sensibilità di alcuni lettori.
Se sapete che determinati argomenti vi impressionano particolarmente, sconsiglio di continuare la lettura.
In caso dovesse risultare difficile la sua continuazione, sospendetela immediatamente.
In caso doveste continuare invece, buona lettura.
Leggete consapevolmente.

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JASON

"Non scegliamo mai le nostre ossessioni,
sono le ossessioni a scegliere noi"
-John Irving

Nell'istante in cui avevo incrociato il suo sguardo avevo sentito il mio cuore fermarsi e morirmi nel petto. Pensavo di essere riuscito a liberarmene, di aver finalmente lasciato alle spalle ogni cosa che riguardasse lei ma ora era lì che mi fissava. Sapevo già cosa significava tutto ciò.

Il mio incubo stava per ricominciare.

Tutti i ricordi che avevo cercato di sopprimere stavano tornando a tormentarmi ed erano forti come una sberla in pieno viso. In sostanza una gran rottura di coglioni.

Ricordo la prima volta in cui l'avevo vista nella caffetteria in cui ero solito andare a studiare dopo il lavoro per gli esami universitari.
Ricordo che lavorava lì e un giorno fu proprio lei a servirmi.
Ricordo che era alle prime armi, quindi commetteva molteplici errori in modo impacciato ma anche che aveva sempre il sorriso stampato sul volto, pure nei momenti in cui veniva ripresa.

La trovavo adorabile al tempo. Sembrava un animo puro intrappolato in un corpo estremamente attraente e sensuale. Ero consapevole che la mangiavo con lo sguardo ogni volta che ne avevo l'occasione ed ero anche consapevole che lei se ne fosse resa conto e che ricambiasse ogni singola volta. Eppure non ebbi il coraggio di parlarle per molto tempo. Il massimo di interazione che avevamo, erano le due frasette di circostanza che dicevo per ordinare le solite cose e le sue risposte cordiali da manuale che penso ogni cameriera sappia a memoria.

Poi per un periodo smisi di andare. Ricordo di aver passato una settimana a letto con la febbre e la settimana dopo sarebbe iniziata la sessione, quindi avevo iniziato a studiare da casa. Tra l'altro vivevo già per conto mio, quindi dovevo anche lavorare. Insomma un periodo del cazzo.

Quando misi di nuovo piede in quella caffetteria, notai immediatamente il modo in cui sembrò illuminarsi. Notai anche però che il suo trucco era completamente sbavato, come se avesse appena finito di piangere. Un uomo sulla cinquantina, uscì dalla caffetteria urlando imprecazioni e sbattendo la porta, quindi quella volta mi avvicinai a lei per chiederle se fosse tutto apposto e se quell'uomo le avesse fatto qualcosa.

A ripensarci, avrei dovuto farmi beatamente i cazzi miei.

Alla fine non era successo nulla, era scoppiata a piangere per i commenti negativi che aveva ricevuto in seguito ad un errore con un'ordinazione. Non era stata toccata o peggio. Ciò non significa che fossi d'accordo con il modo in cui era stata trattata. Almeno, non in quel periodo. Ora, se fosse per me, sarebbe già dovuta essere morta da tempo.

Da quell'episodio iniziammo a parlare più spesso e a vederci anche al di fuori di quel contesto. Io mi stavo innamorando e avevo la forte sensazione che le cose stessero andando per il verso giusto dato che lei dava segni di interesse nei miei confronti, tant'è che in poco tempo iniziammo a frequentarci e dopo un paio di settimane eravamo già fidanzati. Era la donna dei miei sogni ed ero così rincoglionito dalla situazione da ignorare ogni campanello d'allarme.

Ignoravo la sua gelosia asfissiante per esempio, che la portava a fare scenate ogni volta che parlavo con una qualsiasi ragazza che non fosse lei. Una volta se l'era presa perché avevo chiesto ad una delle mie insegnanti su cosa avrei dovuto studiare e approfondire per la prossima sessione d'esame. Non mi aveva parlato per tre giorni, ignorando messaggi e chiamate e non calcolandomi quando andavo in caffetteria da lei. Oppure la sua mania del controllo. Doveva avere sempre il comando in qualsiasi situazione e se non ero d'accordo con lei mi toccava subirmi una sfuriata in cui faceva la vittima e diceva che "non la capivo".

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