Otto

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LIO

Non ero mai stato un tipo violento. Non davvero. Mai. Da ragazzino all'orfanotrofio, imparavi presto a rintanare ogni cosa, ogni colpo, ogni insulto. La rabbia, il dolore, l'umiliazione—li ingoiavi e li mettevi via. Diventavano parte di te, una melma nera che si annidava in fondo, e te la tenevi lì, nel silenzio.

Poi era arrivato Miguel, con quella faccia da schiaffi. Un tipo che non riuscivo a ignorare. E qualcosa dentro di me si era spezzato.

Quel giorno, il racconto di Lola aveva acceso in me una fiamma che non riuscivo più a spegnere.

Parlava come chi non riesce nemmeno più a respirare. Sussurrava piano, con una voce smarrita, lenta. Non era più la ragazza che conoscevo. C'erano spazi vuoti nei suoi occhi, un vuoto che mi si è piantato dentro. Era chiaro chi fosse la causa.

Miguel non le aveva dato modo di fiorire, di respirare. No, lui l'aveva soffocata, e poi fatta a pezzi, come un fiore che prima ignori e poi pesti. Ma lui non si era limitato a trascurarla: l'aveva intossicata, contaminata, annientata. E la cosa più folle era che non gli importava nulla.

Io non riuscivo più a starmene calmo. Sentivo il sangue ribollire come un vulcano nelle vene, le mani che mi prudevano, e qualcosa—qualcosa che non avevo mai provato prima. Mi scoprivo a desiderare di fargli del male, restituirgli almeno un frammento del dolore che aveva versato su di lei.

Era come un bisogno, scuro, vivo. E forse per la prima volta in tutta la mia esistenza, non avevo paura di lasciarlo venire fuori.

Lola era entrata a scuola già da un'ora buona, e io ero ancora lì, nel parcheggio, immobile. Le mani stringevano il volante tanto forte che le nocche erano bianche, come il ghiaccio. Non me ne sarei andato finché non avessi visto quella faccia da prendere a pugni. Sapevo che sarebbe arrivato, col suo solito ritardo, con la sua solita arroganza.

E infatti arrivò, finalmente. Scese dall'auto elegante come sempre, con il suo autista alle costole e un altro tipo accanto: alto, biondo, faccia pulita, uno di quelli che sembrano usciti da una rivista di buone maniere.

Da dove stavo, non potevano notarmi. Così scesi dall'auto e mi avvicinai al cancello, nascondendomi dietro le altre macchine parcheggiate. Mi posizionai abbastanza vicino da non perdere una parola, ma senza farmi vedere.

«Miguel, perché non lasci in pace Lola?» disse il biondo. Sembrava calmo, ma si percepiva una tensione sottile.

Il cuore mi batteva nelle orecchie, ma riuscii a concentrarmi su quelle voci. Sapevo che quello era il momento che aspettavo.

Miguel ridacchiò. La domanda gli sembrava quasi comica. Si fermò per un attimo, aggiustandosi la giacca di pelle con quell'aria spavalda che gli dava quell'odiosa superiorità. «Raúl, non fare il sentimentale adesso. Sapevi già come sarebbero andate le cose.»

Raúl avanzò di un passo, la voce più bassa, ma abbastanza forte da farmi sentire ogni parola. «Sì, ma non credevo che sarebbe finita così. Lei... non se lo meritava, Miguel. Quello che le hai fatto... quello che mi hai fatto fare...»

Quelle parole mi colpirono come un pugno. Lui era stato complice. Mi tremarono le mani e sentii un impulso rabbioso: tirai fuori il telefono e iniziai a registrare.

Miguel non smise di sorridere, ma c'era un'ombra, uno sguardo freddo che mi mise i brividi. «Oh, davvero? È stato solo un piccolo aiuto, Raúl. Nulla di grave. Tornerà normale, una volta che se ne sarà fatta una ragione.»

Raúl scosse la testa, visibilmente nervoso. «Piccolo aiuto? L'hai fatta drogare, Miguel. Sono stato io a metterle quella roba nel bicchiere, ma l'idea è stata tua!»

Un clochard a BilbaoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora