8. Il fascino dell'ignoto

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(Canzone consigliata: In the Air Tonight - Jon Howard).

Iris.

C'era sempre stato un non so che di terrificante tutte le volte in cui avevo dovuto entrare da quella porta.

Ricordavo che i miei primissimi passi verso di essa erano stati incerti, come stessi camminando sopra dei pezzi di vetro senza indossare le scarpe.

Ricordavo il tremore delle mie mani e del mio cuore, ma ricordavo anche come la prima vista di quella stanza era riuscita a tranquillizzarmi quel tanto che bastava per farmi sedere sulla poltrona davanti al Dottor Sullivan.

Non era una stanza troppo pretenziosa, nel suo essere piccolina era confortevole. Le finestre erano sempre illuminate anche nelle giornate più uggiose, donavano quel tocco in più alla bellezza della libreria pregna di volumi di psicologia che si trovava addossata a una delle pareti.

La poltrona era sempre stata comoda, anche se quando avevo dovuto affrontare varie questioni era risultata troppo fastidiosa. Il tavolino che era presente in mezzo alle due sedute era basso e piccolo, ma c'erano sempre fazzoletti pronti all'uso e delle caramelle. Qualche volta era capitato anche che ci trovassi dei fiori freschi dentro un vaso.

Avevo avuto poco più di undici anni la prima volta che avevo incontrato il mio psicologo, eppure, non mi aveva mai trattata come fossi una bambina. Aveva sempre parlato con me come fossi adulta, per farmi comprendere davvero quello che accadeva dentro la mia testa. Non aveva mai dubitato della mia intelligenza, indipendentemente dall'età.

Una volta, mi aveva spiegato che il nostro cervello era come suddiviso a metà. Una parte era quella razionale, quella che, in un certo senso, riuscivamo a controllare. L'altra metà, invece, era quella totalmente sconosciuta. Perfino per noi stessi era difficile, se non addirittura impossibile, controllare quello che avveniva in quella parte buia e controversa.

Con gli anni avevo imparato a non temere quella stanza, né tantomeno le sue parole. Avevo imparato che andava bene se una parte del mio cervello si comportava come non avesse una sua logica, mi rendeva solamente una persona normale.

Anche se non mi sentivo molto normale quel giorno mentre ero seduta davanti a lui per il nostro incontro settimanale.

«Mi sento strana», confessai accavallando le gambe.

Il Dottor Sullivan scrutò quel mio movimento con i suoi occhi scuri mentre apriva una nuova pagina sul suo taccuino bianco. «Partiamo da questo, allora.»

Lo avevo sempre visto come un uomo carismatico, sempre con un abbigliamento ricercato e professionale con le sue camicie e pantaloni eleganti. Non lo avevo mai visto con un capello fuori posto, sempre con quei capelli scuri che ormai tendevano anche un po' al bianco, acconciati in maniera classica ed elegante.

Mi leccai le labbra mentre prendevo un respiro profondo. «Ci sono momenti in cui voglio solamente sparire, cambiare perfino faccia per non continuare ad essere me stessa», la mia gamba accavallata iniziò a dondolare. «Non ho voglia di stare in mezzo alle persone, non voglio socializzare e non voglio nemmeno dipingere.»

Gli occhi del mio psicologo continuarono a sondare il mio viso, incitandomi a continuare.

«Poi ci sono momenti in cui voglio riprendere in mano la mia vita, continuare a camminare e fare sempre qualcosa di meglio. Momenti in cui mi viene voglia di ballare e ridere, di ricominciare a vivere come una persona a cui piace stare in compagnia.»

«E perché questo ti fa sentire strana?», chiese mentre distoglieva lo sguardo dal mio per posarlo sul suo taccuino e scrivere chissà cosa.

Ero sempre stata curiosa di scoprire quali fossero i suoi appunti, cosa scriveva al loro interno. Se fossero cose negative oppure positive. Moltissime volte mi era venuta la voglia malsana di strapparglielo dalle dita e scappare via, per poter leggere in pace quello che la sua mente da psicologo pensava di me.

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