Parte VI

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Venni dimessa e, un paio di giorni dopo, io, il mio ragazzo e mia madre andammo a Palermo per un'ulteriore visita all'ospedale Cervello. Appena vedo la struttura esterna mi assale la paura. E se dovesse crollare? È vecchio! Vorrei scappare, ma abbiamo percorso molti chilometri per arrivarci ed è giusto che io faccia almeno la visita, ma già, in cuor mio, so che non metterò mai più piede li dentro. Parlando, il dottore mi dice che i medici dell'ospedale S. Orsola di Bologna sono stati i loro insegnanti. Mi si illumina una lampadina e penso a Bologna. Loro dovranno a tutti i costi diventare i miei angeli custodi. Andiamo via alla fine della visita e, appena arriviamo in macchina, dico: "Dice che quelli di Bologna sono stati i loro insegnanti. Credo che non esista centro migliore! Potremmo andare li?" Mi guardano e mi fanno cenno di sì, non mi avrebbero lasciata in quel posto vecchio e brutto, mai al mondo! Proviamo a contattare il medico che mi aveva proposto il ricovero diretto, ma non riusciamo a rintracciarlo. Nei giorni successivi seguiranno telefonate e viaggi in ospedale che non porteranno a nulla. Quando, finalmente, riusciamo a rintracciarlo telefonicamente, ci sentiamo rispondere: "Ma guardate che io non ho mai detto nulla di simile, avrete capito male. Posso darvi al massimo i numeri telefonici per poter comunicare con loro!" Eh beh, certo, ovvio... Su tre persone nessuno aveva capito niente, eravamo diventati matti, ci eravamo inventati tutto. Mi crolla il mondo addosso! Dovrò aspettare di sicuro la lunga lista prima di poter operarmi. E nel frattempo? Arrivati a casa, mia mamma si prodiga intanto a trovare i contatti del S. Orsola e a telefonare per prendere appuntamento. Siamo a luglio del 2011 quando, finalmente, riusciamo a parlare con qualcuno, spieghiamo loro la situazione e riusciamo ad ottenere un appuntamento. Compriamo i biglietti e con tutta la forza, il coraggio e la speranza che qualcosa possa cambiare in meglio, facciamo le valigie e partiamo. Appena mi ricevono per una visita di controllo, mi accorgo del loro sguardo scioccato. Uno di loro mi chiede: "Chi ti ha ridotta così?" Sono magra, debilitata, senza forze e bianca come un cencio. Mi viene da piangere. Mia madre gli spiega che è stata colpa di medici incoscienti. Ci tranquillizzano e mi ricoverano. Sto male, mi sento a disagio, ho le caviglie che somigliano a due canotti da quanto sono gonfie. Non conosco nessuno, ma già il semplice fatto di sapere che i medici sono dolci e gentili mi rallegra. Indosso il pigiama ed esco in corridoio. Qualche metro più avanti due ragazze parlano tra loro. Una molto magra, il viso da bimba, capelli scuri, indossa occhiali da vista e l'altra, più grande di età, capelli ricciolini scuri e lunghi, occhi dolci, profondi, magra, ma non ai livelli dell'altra. Mia madre mi sprona: "Vai a fare amicizia con quelle ragazze, dai. Andiamo!" A me non va di intromettermi, ma vado uguale, ho bisogno di fare amicizia o dentro quell'ospedale rischio di farci la muffa e di restare pure sola. Mi avvicino, sorrido timidamente e le due ragazze mi accolgono col sorriso più dolce e sincero che possa esistere al mondo. La ragazza magra si presenta, si chiama Francesca, non hanno ancora capito da cosa è affetta. L'altra ragazza si chiama Morena. Mi sento già più rilassata e a mio agio. Anche io mi presento e spiego che ho il Crohn. Morena mi dice: "Che carino il tuo pigiama!" Sorrido. È la prima volta che sono veramente contenta da quando mi hanno diagnosticato il Crohn. Andiamo a sederci nel salottino e iniziamo a parlare del più e del meno, rito, questo, che si ripeterà ogni giorno del nostro lungo ricovero. Tra noi tre nasce un'amicizia ed un feeling unico, tanto da scambiarci subito i numeri di cellulare per non perderci nemmeno dopo che fossimo uscite da lì.

Storia di dolore ed amiciziaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora