Capitolo 1

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BAD DREAM.

Capitolo 1

- Un giorno fuori -

12 Agosto ore: 00.15

-E' successo qualcosa di orribile -

12 Agosto ore: 00.30

- Zack -

12 Agosto ore: 1.08

- Solo i familiari possono entrare -

12 Agosto ore: 2.33

- Astrid torna a casa ti farà bene dormire -

12 Agosto ore: 2.49

- Ora puoi entrare -

12 Agosto ore: 2.57

- E' colpa tua se lui ora è in coma Astrid è solo colpa tua -

Le palpebre si aprono e si chiudono velocemente, non mi sono svegliata di soprassalto, almeno non succede più, prima urlavo e tremavo, ora apro soltanto gli occhi e mi rendo conto che rivivo ogni giorno quel momento di dolore che non mi fa andare avanti. Il ticchettio del grande orologio mi inonda i pensieri ed è meglio così, non voglio pensare a nulla. Guardo fuori dalla finestra per vedere se le prime luci dell'alba ci sono ma no, è ancora buio. Non ce la faccio a stare ferma, devo camminare, sfrego le mani una contro l'altra e non mi fermo sul letto, il letto si succhia via le mie energie vitali riproducendo nella mia mente ricordi orribili e la cosa più brutta è che non posso dire nemmeno che siano frutto della mia fantasia, sono cose reali che continuano a prendersi gioco di me. Zack in questo momento mi avrebbe tranquillizzata, presa per le spalle e baciata sulla fronte dicendomi che stavo diventando una pazza sclerotica ma era okay. Ma no, se Zack ci fosse stato non sarebbe in camera, mamma lo avrebbe preso a padellate nelle gengive. Lui non si era mai fatto amare dai miei genitori era troppo occupato a farsi amare da me. Devo dormire, se non dormo non faccio brutti sogni, però se sto sveglia continuerò a pensare a quanto mi manca Zack, ora dovrei darmi da sola una padellata in testa. Ma crollo, il sonno mi inghiottisce e mi riporta nei miei ricordi, subisco questa tortura da un mese intero e mi dico che sarà mai un altro giorno?
Non trovo nessuno a colazione, come sempre, ovviamente hanno paura che possa ucciderli respirando nella stessa stanza con loro e questi pensieri mi portano a passarmi più volte le mani fra i capelli. Dio che nervoso. E' meglio
che mia mamma non me la prepari la colazione, mi viene soltanto da vomitarla ora che so che i miei genitori mi evitano. Ma una speranza c'è, appare da dietro la porta del bagno e quel piccolo miracolo è mia sorella. L'ultima sfornata, ha gli occhi grandi come quelli di papà ma la testolina fine e rotonda come quella della mamma. La guardo e lei guarda me, a differenza mia lei ha dei capelli lunghi fin sotto la schiena ma poi siamo molto simili, si siede di fianco a me e addenta il cornetto che le ha lasciato la mamma, dove sto seduta io non c'è nessun cornetto, soltanto una triste tazzina di caffè freddo. Si vede che non sono la cocca di casa.
-Mamma ha detto che ti devi prendere le pillole che stanno sopra al comò del bagno- La sua voce è acuta, squittisce come un topo sembra che parla con il setto nasale invece che con le corde vocali.
-Non prenderò gli antidepressivi, diglielo alla mamma dato che con me non ci parla più- Le rispondo con tono acido, non devo risponderle così, lei non centra nulla ma è più forte di me.

-Lei mi ha detto soltanto di dirtelo... - Mormora lei bagnando il cornetto nella tazza straripante di latte e cacao, non le chiedo scusa, non mi scuso così semplicemente, sono stanca di dover essere sempre io quella che ha commesso un torto. Non parliamo più, è come stare in una cappa di vetro quando tutto è silenzioso, è da un mese che mi sento in una cappa di vetro perché tutto intorno a me pare essersi fermato in modalità silenziosa. Non esco da un bel po', dal giorno dopo l'incidente di Zack mi sono chiusa in casa, non so perché lo ho fatto, forse ho paura di essere perseguitata dalla sua famiglia, li capirei dato che il fratello maggiore Trevor ha scaricato la colpa dell'incidente tutta su di me. Mi ha puntato il dito contro e da lì mi sono chiusa in casa. Non volevo una rivolta sotto il mio portone. Risalgo in camera e apro le tende della mia piccola finestra, il sole non è accecante delle nuvole grigiastre lo coprono e fanno passare la luce che basta per illuminare il cielo. Devo uscire, non so se sia sicuro uscire, ho una paura tremenda ma cercherò quel pizzico di menefreghismo che c'è in me per avere il coraggio di uscire. Apro l'armadio ed è strano vedere tutti quei vestiti sopra le stampelle, e alcune magliette ripiegate sopra una grande mensola, in realtà fa strano vedere di per se dei vestiti comuni dato che è da un mese che indosso solo pigiami, ma il pigiama è comodo il pigiama è mio amico e non vuole farmi del male. Apro la porta di casa, mi tremano le gambe, cazzo e come tremano, ho paura di cadere non mi reggono. Faccio un passo dopo l'altro e arrivo alla buca delle lettere mi ci appendo come un koala è la mia ancora che mi mantiene in piedi. La apro anche se penso che i miei genitori la controllino la posta, il postino era l'amante di mamma una volta. Mi tiro i capelli dietro alle orecchie e guardo dentro la buca delle lettere, vuoto totale, non so cosa mi aspettavo forse una lettera da parte della famiglia di Zack oppure un buono per il pranzo da Annita's Burger dove molto spesso andavamo io e Zack. Smettila di pensare a Zack Astrid, smettila, mi do un colpo sulla fronte e quando apro gli occhi vedo mia madre seguita da mio padre con una valigetta fra le mani. Mi guarda ma non mi parla mia madre, però vedo dal suo sguardo che è sorpresa, ma poi il suo sguardo si sposta sulla buca delle lettere a cui sto ancora aggrappata e lei la apre e ci mette dentro una lettera e fatto ciò entra in casa. Papà è vecchio, molto vecchio, avrà sui sessantaquattro anni penso, la sua pancia della vecchiaia aumenta sempre di più noto, o forse è soltanto la pancia che si crea quando si beve troppa birra. Anche lui non mi parla, è solito a seguire mia madre, per questo lavorano anche insieme, però lui è soltanto un assistente mentre mia madre è il capo. Mi hanno ignorata come al solito ma decido di staccarmi dalla buca delle lettere e di fare altri due passi per avvicinarmi al piccolo cancelletto che delimita il confine. Arrivo al cancelletto e l'oltrepasso, respiro e di fronte a me vedo soltanto la casa dei vicini, e quasi identica alla nostra, la maggior parte delle case in città sono tutte uguali ma la mia mi inquieta parecchio, è scura e triste all'interno e il freddo ti sale ogni volta su per la spina dorsale. Guardo le finestre della casa dei vicini, le guardavo spesso prima quando uscivo ancora fuori casa perché avevo voglia di incrociare lo sguardo di Roger,i suoi occhi sono due piccole fessure pronte a fissare la finestra della mia stanza. Ma ora non ci sta nessuno, Roger non è fermo nella sua cameretta a guardarmi attraverso quel vetro opaco, ora su quella finestra ci sta una tenda giallastra sembra che l'abbia messa apposta quella tenda, per non essere tentato a dare una sbirciata alla mia finestra. Inizio a camminare, un passo dopo l'altro mi ripeto, non so dove precisamente sto andando, mi faccio guidare dall'istinto in queste situazioni, e fino ad ora mi ha portato a vivere delle belle situazioni. Mi trovo ai piedi di una grande quercia, la nostra grande quercia, Venerdì si chiama, così l'avevamo battezzata da piccoli io e Zack. Ci giro intorno, sento ancora le sue risate, dio le sue risate... vedo lui da piccolo che corre attorno al grande tronco, corre è più veloce di me lo è sempre stato, i capelli che lo facevano sembrare un tutt'uno con le foglie e poi saltava si aggrappava ad un ramo e saliva. Tendeva la sua piccola manina verso di me e io lo guardavo con occhi spalancati da sotto. A sei anni ci siamo conosciuti, a sei anni ho conosciuto i suoi occhi, grandi occhi che guizzavano da una parte all'altra che osservavano in un modo diverso il mondo e ho conosciuto le sue labbra a otto anni ma poi non le ho più viste fino ai quindici. Mi stringo al tronco, lo abbraccio come se fosse Zack, è lui nella mia testa, lui è la mia quercia, e prima che me ne accorga sto piangendo, con la guancia premuta contro il tronco, singhiozzo, e tengo gli occhi chiusi a forza perché non voglio crederci che sto piangendo, non voglio vedere le lacrime che bagnano le foglie sotto ai miei piedi. Stringo i denti, la mascella si irrigidisce e smetto di piangere, gli occhi non pizzicano più, forse sono finite le lacrime.

- Astrid? - Una voce alle mie spalle mi riporta alla realtà, una realtà che non sono pronta ad affrontare, uso il tronco come un fazzoletto nascondo il viso e poi mi asciugo le lacrime in fretta.

- Roger.... - Sussurro, sembra più alto dall'ultima volta che lo ho visto, però i suoi occhi sono ancora due piccole fessure, quelle due piccole fessure che mi spiano dalla finestra.

- Stai bene? - Fa un passo verso di me, ha i capelli a posto, nessun ciuffo ribelle niente di niente solo piccole curve che hanno un loro senso, i capelli di Zack non sono così, non sono mai in ordine come quelli di Roger.

- Cavolo..Da quanto tempo non ti vedo - Avanza, il suo passo è più deciso del mio, io vado a sbattere soltanto con la schiena contro al tronco, voglio la mano di Zack in questo momento, voglio stringerla e non avere paura di parlare.

- U-Un mese - Balbetto stringendo le dita alla corteccia umida di Venerdì, Roger ha capito che sono a disagio, lo capisco perché indietreggia, fa due passi indietro e poi si gratta la nuca abbozzando una leggera smorfia sul volto.

- Scusami se sono così...Dio! non posso credere che non riesca a parlare - Mi tiro indietro i capelli con forza e non smetto di distruggermi le pellicine delle dita, ecco il mio nuovo antistress.

- No, non ti preoccupare ti capisco -Sembra che voglia aiutarmi, o almeno credo. Sta andando all'allenamento di scherma, indossa l'attrezzatura superiore ma poi dalla vita in giù indossa dei semplici jeans. Il casco è in mano.

- Allora sei uscita, come ti senti? - Stringe la cinghia della borsa e i suoi occhi sono puntati su di me, vedo che mi sta studiando, sta cercando qualcosa di nuovo in me, spero soltanto che non veda l'ansia che mi si è appollaiata sulle spalle.

- Uhm...direi...non lo so in realtà, ma forse è soltanto questo posto che mi fa sentire così - Stacco la schiena dal tronco, cerco di stare dritta di non afflosciarmi come una delle tante foglie che stanno a terra, faccio dei passi verso di lui ma mi fermo ad almeno due metri di distanza.

- Così come? - Chiede ma non so se gli interessa davvero la risposta perché ora non la smette di far saltare lo sguardo dalla quercia a me.

- Forse è meglio se torno a casa ora, è stato anche abbastanza per oggi - Sospiro, perché non ce la faccio più, ho paura di scoppiare come una scema a piangere, non mi voglio aggrappare a Roger e non voglio essere consolata da lui.

- Quando decidi di fare un'altra gita fuori...Chiamami la prossima volta - Annuisco in fretta, voglio scappare, correre lontano, ma lo sguardo di Roger non me lo permette, è sempre stato così, il suo sguardo mi fa sentire a disagio, ma da un lato mi piace perché è uno dei pochi che mi parla ancora, forse è anche l'unico ovviamente dopo mia sorella.

- Va bene - Sorrido, o almeno penso di sorridere, si sto sorridendo sento gli angoli delle labbra alzarsi, Ah per fortuna non ho una paralisi facciale. Lui non si smuove dal posto, rimane ancora a fissarmi, chissà a cosa sta pensando, di sicuro sta notando la situazione imbarazzante che stiamo vivendo. Nessuno dei due parla, e quindi decido io di fare la mia mossa, non voglio affondare le radici a terra come Venerdì, quindi mi giro e do le spalle a Roger, faccio un piccolo gesto di saluto con la mano e mi incammino di nuovo verso casa. In realtà non voglio tornare a casa, non voglio sentirmi isolata di nuovo, voglio che si senta la mia presenza tra le mura del salotto e che mia madre non mi ignori, voglio picchiarla a mia madre, la odio. Odio che lei creda alle voci che girano, sono sua figlia dovrebbe fidarsi di me, non sono stata io a provocare l'incidente, non è colpa mia se Zack è in coma, non è colpa mia, dio...non è colpa mia vero?

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