Capitolo ventuno.

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«Deve esserti capitato qualcosa di brutto per dire una cosa simile, ma posso dirti che non è così per tutti» affermo decisa.
«Come puoi esserne così sicura?» dice in un sospiro stanco, slacciandosi la cintura e girandosi meglio sul sedile, per guardarmi in faccia.
Mi schiarisco la voce e faccio gli stessi suoi movimenti. Tocco alla mia destra e faccio scattare il pulsante della sicura della cintura, accompagnando poi la fibbia in alto a sinistra.
«Ho passato un bel po' di tempo con una persona che non sapeva fare altro che mentire, e mi aveva fatto pensare che tutti fossero esattamente così. Perché anche io ho avuto a che fare con qualcuno che ha avuto il coraggio di fingere, nonostante prima dicesse di amarmi e volermi bene» biascico tra un inutile ricordo e l'altro. «Diceva tante cose, prometteva momenti felici e nonostante avesse detto più volte che sarebbe rimasta, ha fatto presto ad andarsene e far sparire nell'aria tutte quelle promesse» dico io.
La mia voce risulta ferma, fredda.
Quando parlo di lei cerco sempre di non far vacillare nulla, se non la mia indifferenza e il mio odio, odio che non riesco ad evitare.
Sono immatura per questo? Probabile, ma non riesco a farne a meno. Vorrei davvero ignorare tutto questo, ma non riesco a farmelo scivolare addosso come dovrei.
Ora l'unica cosa che si può sentire nella vettura è il rumore dei nostri respiri che appannano i finestrini.
Abbasso la testa verso le mie mani, che inizio a far passare sui pantaloni con il fine di scaldarle.
«Lei... lei sembrava diversa, lo sembrava davvero. Soprattutto perché non ti aspetti che sia qualcuno del tuo stesso sangue a farti stare male, ma mi sono sempre sbagliata» ammetto, dicendolo più a me stessa che a O'Conner, perché dopo tutto, è vero: quando pensi che una cosa non possa capitarti, ti capita.
«Si sa, è più facile mentire che dire la verità, e lei lo sapeva bene. Ha fatto molte cose questa persona per far si che io perdessi fiducia, stima, amore in lei e anche in molte altre persone per la paura di essere tradita...» sussurro, rendendomi conto degli occhi attenti e limpidi del ragazzo di fianco a me che, nonostante l'oscurità della sera, brillano intensamente mentre mi scrutano.
La sua insistenza nel guardarmi continua, e io non posso fare a meno di alzare lo sguardo dalle mie mani al suo viso, che non è poi così distante dal mio quando mi giro. Per prendere un po' di distanza mi sposto leggermente indietro e tocco con la schiena la portiera, piegando di traverso le gambe per non sporcare i sedili con le scarpe.
Mi fa un cenno con la testa per incitarmi a parlare, e io lo faccio: «Ma ho conosciuto qualcuno di davvero speciale che mi ha fatto capire che non tutti fanno così schifo». Sorrido leggermente quando nella mia mente l'immagine nel lunghi capelli biondi di Jinger si fa spazio insieme al suono delle sua risata.
«Penso che anche quella persona finirà per tradirti, lasciarti e andarsene» dice duro, facendomi scuotere la testa in segno di disapprovazione.
«No, lei non è così, è diversa» gli dico io, smentendolo subito.
«Lo dicevi anche della persona di cui ti fidavi tanto, e invece guarda? Dov'è ora?» chiede lui curioso, o forse solo interessato a farmi capire che ha ragione e io mi sbaglio.
«Ora... lei non c'è, l'ho allontanata io, ma perché non voglio qualcuno di così squallido vicino a me» spiego in breve.
«Che sia tu a tenerla lontana o meno, lei era diversa, no?» chiede ancora, cercando di rivoltare le mie stesse parole contro di me, facendomi quasi scattare.
«Lei doveva essere diversa! È la prima cosa che ti aspetti quando è tua madre» quasi grido, bloccandomi subito e tappandomi istintivamente da sola la bocca con la mano destra.
La sposto piano e sussurro piano uno "scusa", poi porto il mio sguardo fuori dalla macchina, nella via illuminata dai vari lampioni.
Scuoto la testa e sospiro, girandomi ora con la schiera contro il sedile, incrociando poi le braccia al petto.
Il silenzio torna a regnare nell'abitacolo e pure l'imbarazzo che sembrava essere stato momentaneamente sostituito dalle mie parole e dalle sue. Pensavo pure che ci potessimo venire incontro e capirci, forse mi sbagliavo. Lui non può capire ciò che dico.
«Credo di capire» interrompe i miei pensieri, facendomi girare di scatto verso di lui. Apro la bocca per parlare, ma la socchiudo subito, sperando che sia poi lui a continuare e questo accade: «Gli adulti mentono: non sanno mantenere le promesse e questo li rende persone orribili» dice lui in un lamento di disgusto. «Il problema è che nonostante sappiano di non poterle mantenere, le fanno lo stesso fregandosene dei sentimenti degli altri. E la cosa ancora più brutta è che anche io sono un adulto e come tale, non so se riuscirò a mantenerle» sussurra dopo, quasi rammaricato. Lo sguardo ora è perso nel vuoto e l'unica cosa che mi viene da fare è cercare di distrarlo. Il suo sguardo in un batter d'occhio è cambiato, sembra cupo, distante, e la cosa non mi piace.
«Allora non promettere» la faccio corta io, nonostante sappia che non è facile come dirlo.
«Ma è inevitabile. È un controsenso assurdo, ma è così. Ma non è solo per questo che gli adulti non mi piacciono» biascica lui, provando a spiegarsi e stupendomi un po'.
«Ti promettono cose, ti riempiono la testa di bugie, spingendoti a credergli nonostante tu non voglia, poi però ti fanno del male, ti mentono, ti usano e ti lasciano... anche l'essere umano più bravo può essere crudele».
Stavo esattamente per ammettere a me stessa che per quando provi a capirlo, ciò risulti impossibile, invece credo di capirlo esattamente come lui crede di capire me, e forse è vero.
Forse dovrei dargli più tempo per parlare e ascoltare tutto ciò che ha da dire.
«Anche i bambini mentono, sai?» dico io, ripensando alle sue parole al bar.
Il suo odio o ribrezzo nei confronti degli adulti è nettamente superiore al mio, perché ormai io sento disgusto solo nei confronti di mia madre, a differenza di O'Conner, il quale non si fida degli adulti in generale e preferisce i bambini nella loro innocenza e semplicità.
«Certo che lo so, ma è diverso: i bambini si promettono cose tra loro, ma sono troppo piccoli per pesare cosa è giusto e cosa è sbagliato. Per pesare le parole da usare nei momenti più opportuni. In un modo o nell'altro i bambini non lo fanno apposta, invece gli adulti, nonostante sappiano perfettamente la verità, ti illudono» dice con un tono di fastidio, fermandosi a pensare, forse.
«Questo lo dici perchè...» chiedo io, facendolo continuare.
«Perché ho avuto a che fare più volte con adulti come questi, un po' come te» spiega lui,
«Fin da quando sono piccolo ho avuto dei genitori poco presenti: un padre che mi ha lasciato solo i giorni più importati della mia vita per il proprio egoismo. Praticamente tutti i miei compleanni, i primi giorni dell'inizio della scuola, quando sono andato al liceo e quando ho iniziato l'università. Ho acquistato il mio primo motorino, la mia prima moto e macchina con i soldi che mi sono guadagnato lavorando» sbuffa lui, elencando un po' delle cose che lo hanno fatto stare male un tempo.
«Il mio, è il classico padre interessato solo a se stesso, solo ad un tornaconto personale, solo se ciò che si fa, fa del bene anche a lui. Mi ha riempito di promesse, promesse che agli occhi di un adolescente a cui manca il padre andavano bene e che si faceva incantare come uno scemo...» dice abbassando di alcuni toni la voce, che diviene un sussurro. Il suo sguardo torna a perdersi nel vuoto per poi fissarsi in un punto al di fuori della macchina.
«Per non parlare di mia madre, anche lei ha fatto la sua parte. Non andava agli incontri con gli insegnanti, non mi portava alle partite di hockey e nemmeno mi ascoltava. Ero solo un ragazzino che voleva vivere come tale... ma non poteva perché non glielo permettevano» sospira lui.
«Non che i miei nonni o molte degli adulti che ho intorno adesso siano migliori: anche loro mi fanno abbastanza ribrezzo quando dicono cose che, è più che ovvio, non riusciranno a mantenere o semplicemente delle stupide bugie».
Io, purtroppo, non riesco a capirlo a pieno, e questo mi pesa.
Ho avuto una madre poco interessata a me nel momento in cui ha trovato qualcosa di più interessante e importante a cui badare e a cui prestare attenzione, ma ho sempre avuto vicino a me mio papà. Nonostante più volte si fosse allontanato da me e anche adesso succeda, lo riesco a scusare senza accusarlo. Non perché faccia preferenze nei confronti dei miei genitori, ma lui non mi ha mai fatto mancare nulla. Anche quando voleva i suoi spazi, voleva starmi lontano per le sue paure, mi ha sempre considerato importante. Mio padre ha sempre messo me al primo posto, a differenza di mia madre che è stata capace di sparire e mentire sull'esistenza della sua famiglia.
Quindi non posso davvero capire cosa si provi a non riuscire a fidarsi degli adulti in generale.
«In qualsiasi caso entrambi i miei genitori dicevano che per farsi perdonare mi avrebbero portato ovunque, solo per colmare quel piccolo vuoto o dolore creato per colpa della loro non curanza, ma non l'hanno mai fatto. Solo quando ho deciso di scegliere da solo cosa farne della mia vita si solo accorti di me e mi hanno allontanato dalla famiglia dandomi dell'ingrato» dice amareggiato.
«È... è cosa orribile da fare al proprio figlio» gli dico io, cercando di incontrare il suo sguardo.
La mia mano parte istintivamente e va a posarsi sulla sua, che è appoggiata sul cambio.
Non so cosa sto facendo, o forse si e non ne sono cosciente abbastanza per affermarlo: forse voglio solo... non lo so, consolarlo, credo.
Quando le nostre mani entrano in contatto, si gira di scatto a i suoi occhi sono fissi nei miei, spalancati. Appena si abitua alla sensazione della mia mano fredda sulla sua, la accetta e con il pollice accarezza gentilmente il mio mignolo, facendomi sorprendere inizialmente, ma poi mi abituo al movimento piacevole e delicato.
La sua pelle sulla mia mi fa avere una sensazione strana. È diversa da quella di Dan. Le mani di Dan sono sempre calde, invece le sue sono esattamente come le mie.
Aspetto che la tolga, magari infastidito, ma non succede. I suoi occhi, come i miei, sono attenti sulle nostre mani che si accarezzano a vicenda.
Non posso fare a meno di notare la sua carnagione nettamente più chiara della mia e la ruvidità dei suoi polpastrelli su di me.
Nonostante sia sotto la mia, posso vedere la sua grandezza della sua mano, e riesco quasi ad immaginarmi la mia stretta e nascosta nella sua.
Chiudo gli occhi, rilassata dal continuo e dolce movimento del suo tocco sul mio dito, ma questo viene interrotto da un suo colpo di tosse, che mi fa ritirare la mano e riprendere.
Biascico parole incomprensibili e senza un senso, per poi cacciare entrambe le mani nelle tasche della felpa, cercando ora di sfuggire dal suo sguardo divertito.
«Emh...» ricomincio io imbarazzata.
«Hai... ragione, ma ora non conta più. Nemmeno mi importa» dice tranquillo, alzando le spalle.
«Capisco...».
«E a te? Importa ancora?» chiede lui, tornando serio.
«Di mia madre intendi?» domando io, facendo si che lui acconsenta. «No... non mi importa più. È vero, a volte, quando ancora ci penso mi innervosisco e mi domando come sarebbe andata se certe non fossero successe, ma... credo che in un modo e nell'altro, se mia mamma non avesse buttato tutto all'aria allora, l'avrebbe comunque fatto dopo. E poi, nonostante gli sbagli commessi da quella persona, ho capito tante cose» ammetto a me stessa.
«Ad esempio?» chiede lui curioso.
«Che non devo fidarmi ciecamente delle persone. Che principalmente la razza umana fa schifo, se non di più» dico ovvia.
«Effettivamente» ridacchia lui.
«E che posso cavarmela anche da sola, ma... se c'è qualcuno vicino a me, è più facile continuare» sorrido io, sicurissima delle mie parole. «Che anche se provo a chiudermi nel mio mondo, anche se provo a sparire tra i miei dubbi, insicurezze e paure, anche se provo ad annegare nelle mie paranoie, arriverà sempre qualcuno che mi aiuterà per non soffocare in tutto questo. Anzi, forse prenderà parte del mio dolore e lo porteremo insieme...» dico in un sospiro di fiducia.
«Ne sei sicura?» domanda scettico.
«Ho conosciuto una persona che ha avuto il coraggio di caricarsi sulle spalle anche un po' della mia vita, come potrei non essere sicura?» dico io, scuotendo la testa, rendendomi conto di ciò che dico: è vero, è assurdo, è meraviglioso.
«Stai parlando di Monroe?» chiede lui, facendomi sussurrare un "si", che mi fa sentire felice anche al solo pensiero.
«Le vuoi molto bene?» chiede ancora, addolcendo il suo solito tono di voce indifferente.
«È dalla prima media che la conosco e posso assicurarti che esistono le belle persone. Esistono persone che riescono a promettere e mantenere, quindi si, le voglio molto bene» affermo ancora, sempre sicura di ogni parola che ho pronunciato fino ad ora.
Io sono sicura, se non di più, delle mie parole, perché lei è così: c'è ancora prima che me ne accorga, ed è qualcosa che manca disperatamente quando non c'è. Ma quando c'è, riesce a riempire qualsiasi tipo di vuoto abbia e quando non c'è, li svuota immediatamente, perché la sua presenza ora mai è diventata necessaria. Forse io sono diventata troppo bisognosa e abitudinaria di lei, ma... sono felice così.
Appena mi rendo conto di aver iniziato a sorridere come una stupida da sola, smetto e ridacchio, coprendomi la faccia.
Sospiro e mi accorgo di essere nuovamente osservata dal ragazzo vicino a me.
I suoi occhi continuano a brillare e spostarsi sul mio viso. Non riesco a far a meno di sentirmi in imbarazzo e sposto il mio sguardo altrove.
«Sembri diverso da come ti esponi in classe» sussurro io, cercando ancora di colmare il silenzio nuovamente calato in macchina e rigirare il discorso su di lui.
«Lo dici perché ora ti faccio pena? È per questo?» chiede lui divertito.
«No... non mi fai pena, però quando capisci di più i comportamenti e le ragioni di una persona, sembra tutto diverso» gli comunico, chiarendo semplicemente il perchè delle mie parole, che lo fanno sorridere di poco, ma appena mi fermo a pensare a qualcosa di diverso, mi viene da ridere: sono nella macchina del mio professore di matematica. Ancora.
Sono nella macchina del mio professore di matematica, ancora, e parliamo di tutto tranne che di matematica. Parliamo normalmente, nonostante fin dal primo giorno non abbiamo fatto altro se non sopportarci, o almeno così sembrerebbe. Ora sembriamo due amici che finiscono di parlare dopo il lavoro, nulla di strano, quindi. Certo, nulla di strano se fossimo amici e basta, non insegnante e studentessa. È anche vero che non c'è nulla di male nel parlare, ma... essere nella sua macchina? E poi, ripensando a qualsiasi altra cosa successa in questi giorni, in realtà c'è qualcosa di male.
Il contatto di prima, pensandoci ora, mi fa pensare che in realtà c'è qualcosa di male, ma non riesco ad uscire da questa macchina adesso, voglio restare, anche se non dovrei.
Tossisco un po' e mi stringo nella morbida felpa che ho addosso. La morbida e grande felpa che non mi appartiene; non ho ancora restituito a O'Conner la sua felpa e così porto le mani alla cerniera e la tiro giù fino in fondo all'indumento scuro, sfilandomelo.
Lui mi guarda e silenziosamente mi ringrazia. Io gliela porgo e rimango in maniche corte, ma non soffrirò di freddo dalla macchina a casa mia: sono solo un po' di metri, se non meno.
«Quindi... finora con me hai avuto questo modo di fare perché...» dico senza finire la frase, aspettando che mi spieghi il motivo.
«Beh, quando sei un professore è normale dover comportarsi in modo freddo e distaccato con gli alunni. Devo essere professionale se voglio diventare un bravo insegnante» si giustifica lui.
«Ma sei già un bravo insegnate...» sussurro io, facendogli strabuzzare ancora gli occhi.
Sono più stupita io di lui, per ciò che ho detto.
«Non credo. È la prima volta che insegno in una classe» ammette lui, facendo il modesto.
«Che? Davvero?» domando io.
«Ho solo venticinque anni! Ho finito i miei anni all'università e il primo lavoro che ho trovato da prof ho pensato fosse un buon modo per iniziare... ho ancora tanto da imparare!» mi spiega.
«Credo che tu abbia iniziato bene, se dimentico la nostra prima conversazione» gli riferisco.
«Me lo ricorderai per tutto l'anno?» scherza lui.
«Per tutta la vita se è necessario, però... la nostra classe è veramente interessata a quello che dici, e tutto ciò mi sembra strano, nessuno eccelle particolarmente in matematica. Ma spieghi bene, ripeti le cose più importanti e non ti da fastidio se noi ti diciamo che non abbiamo capito. Invece con Goffrey se non capivi al primo colpo metteva un meno...» lo elogio io, complimentandomi con il suo metodo di insegnamento, schifando invece quello di Goffrey.
«Quindi ti piace come spiego?» chiede emozionato, smuovendosi un po' dalla sua solita facciata dura e composta.
Sembra un bambino a cui viene fatto un semplice complimento. Come ho già detto: è diverso.
«Non mi dispiace» cerco di divagare appena vedo il suo assurdo entusiasmo espandersi, per smontarlo un po', e ridacchio, sminuendo ciò che davvero vorrei dire.
«Credo che forse d'ora in poi... potrei iniziare ad ascoltare di più in classe».
«Mi stupisci» commenta lui.
«E non hai ancora visto nulla» scherzo io.
«Emh... cioè, è un modo di dire. Nessun doppio senso, okay?» preciso.
«Quindi... hai intenzione di rimanere in macchina con me ancora per tanto?».
«Mh? Ah! No. Ora vado. Mio papà si starà domandando dove sono finita» dico io, toccando la maniglia della portiera, prima di essere fermata.
«Ma sei con me, che problema c'è?» chiede lui, non capendo.
Anche se quella che non capisce sono io, insomma, vuole che me ne vada o no?
«Nessuno, se non pensiamo al fatto che tu sei il mio professore» recito per l'ennesima volta. "È il mio professore!", "sei il mio professore", frasi che continuano ad uscire dalla mia bocca, o frasi semplicemente pensate che spiegano il perchè io non dovrei essere qui.
«E quindi?» chiede ancora.
«Ma ci fai o ci sei? Quante volte te lo devo spiegare? Non è normale essere accompagnati dal proprio insegnante a casa la sera! O essere accompagnati a scuola!» dico in un lamento.
«Quando io andavo alle superiori, il mio professore di storia mi accompagnava parecchie volte a scuola» commenta lui, come se chiunque accompagnasse i propri studenti a scuola.
«Allora, cerchiamo di inquadrare bene la situazione: io ho diciassette anni, tu venticinque! Io sono una femmin-...»,
«Non avevi detto di essere un cactus?» chiede lui iniziando a ridacchiare.
«Un cactus femmina! E tu un maschio! Posso assicurarti che sarebbe strano» sbuffo io, trattenendo una risata e mostrando uno sguardo impassibile, quasi indifferente, fino a quando scoppio in una fragorosa e buffa risata, che contagia pure lui.
Ride insieme a me, mostrandomi un sorriso perfetto, dolce e divertito, con dei denti bianchi, incorniciati dalle sue labbra rosa e carnose.
Tiene gli occhi socchiusi mentre la mano è appoggiata allo stomaco, continuando a riempire la vettura con la sua voce alta e diversa da qualsiasi altro momento: anche lui sa ridere e sorridere e mi piace pensare che anche lui lo faccia. Ma soprattutto mi piace pensare che sia stata io a farlo ridere.
Più mi soffermo ad osservarlo e più ripenso a questa nostra conversazione. Non capisco, sembra quasi che questa sera stia annullando qualsiasi altro pessimo momento passato con lui. Non riesco a capire il perchè.
Soffermandomi troppo sul suo viso, piano piano smettiamo di ridere: «Ah, già, mi avevi accennato qualcosa su una tua compagna di classe e Goffrey» dice lui, cercando di tornare serio.
«Già... sappiamo tutti del loro rapporto segreto, che poi non è affatto così segreto, anche perché li abbiamo scoperti che limonavano nella macchina di lui nel parcheggio di fronte alla scuola, in prima liceo...» commento io, ridacchiando.
Due anni fa siamo stati io, Marc, Hatty e Lisa a beccare quei geni del male, che provavano a nascondersi nella Porsche del prof.
Non hanno fatto in tempo ad entrare a scuola che Marc e Hatty l'avevano già gridato per i corridoi del nostro piano, e questa piccola relazione amorosa è stata portata avanti fino all'inizio di quest'anno, fino a quando la moglie di Goffrey è venuta a scuola per portargli il portafogli e lo ha quasi beccato che ci provava con la piccola Meg, innamorata e sedotta "dall'irresistibile fascino" del prof.
Mi viene il vomito.
«Ma quanti anni ha?» chiede lui.
«Non lo so, e non lo voglio sapere. Ma credo sulla quarantina. Va beh».
I gusti son gusti... di merda, ma gusti. Gli piacciono i maturi, a quanto pare.
«E quindi tu ti preoccupi che qualcuno possa vederti con me e fraintendere?» mi domanda dubbioso.
«Sono la prima a fregarsene altamente del parere che hanno su di me le persone, ma se c'entra la scuola... come avrai capito non ho una bellissima reputazione per gli anni passati, nonostante molto cose ora me le abbiano perdonate. Ma purtroppo mi sono fatta un po' di nemici, in un certo senso, e non parlo di insegnanti, ma di ragazzi e ragazze di scuola, e sono sicura che non dispiacerebbe a nessuno di loro buttarmi merda addosso» gli rivelo io, facendolo stupire, come sempre, per qualsiasi cosa io dica.
«Che hai combinato?» chiede curioso.
«Assolutamente nulla, è questo il punto. Molti di loro, cioè quelli delle altre classi di terza e quarta, più volte hanno cercato di far fare delle figure di merda a me e a Jin in mensa, più a me che a lei» sbuffo io.
«Del tipo?».
«Ad esempio il classico "ti vengo addosso per sbaglio e ti sporco la maglia con il pranzo", oppure "sei una nuova arrivata, quindi ti devo fare la matricola"! Ti rendi conto?! In mensa! Come i bambini. E siccome io non ho avuto intenzione di farla, hanno iniziato a mettere voci su di me che me la facevo con Dan, sul fatto che fossi la sua troia, e cavolate varie, ma... siccome il genio che fece questa cosa abitava e abita tutt'ora, sei case più avanti della mia, non è stato difficile il giorno dopo fare la foto al suo bastoncino in mezzo alle gambe e tappezzare la scuola con quelle foto. Voglio dire, è normale che se vai in giro per casa nudo qualcuno possa fare foto del genere!» dico io ridendo per quello stupido scherzo finito abbastanza male... per me.
«Ti hanno scoperta?» domanda lui divertito.
«Certo che si. Sono stata beccata mentre tappezzavo i corridoi!» ridacchio io.
«Mio Dio!».
«Lo so! Avresti dovuto vedere la faccia di Goffrey, siccome è stato lui a scoprirmi!».
«Per non parlare di quelli della squadra di basket! Idioti cronici che hanno cercato di vedere il reggiseno di Jinger ma... ho quasi rotto il braccio a uno e rotto il piede ad un altro... capisci che non è facile dover convivere e condividere l'ambiente con gente così» dico fingendomi schifata.
«Sei una pazza furiosa per caso?» domanda prendendomi in giro.
«Sono piuttosto protettiva nei confronti della mia migliore amica, se non ti dispiace» dico io, affermando ciò che è più che ovvio.
«Ti capitava spesso di fare cose come quelle?».
«Almeno due volte alla settimana... e venivo sempre beccata e punita... ma era divertente, in un certo senso» ammetto semplicemente.
«Finivo sempre in detenzione con persone piuttosto simpatiche, tranne certe eccezioni...» biascico al pensiero di alcuni elementi davvero pessimi, con cui ho dovuto condividere l'aria e infinite ore impostemi ingiustamente.
«E come mai questa... mania di fare casini?» domanda, cercando di fare il discreto. «C'entrava con tua madre?».
«C'entrava sempre tutto con mia madre» sbuffo io, rivelandogli, forse, il motivo principale dei miei comportamenti da selvaggia o maschiaccio, non che non fossero anche farina del mio sacco, ovvio, ma molte bravate erano sfoghi.
«Ero arrabbiata con mia madre per molte cose e cercavo di sfogarmi in qualche modo... era sempre un modo sbagliato, ma dopo mi sentivo meglio» spiego sintetizzando il perchè miei modi di fare.
«E ora?».
«Ora sto provando a passarci sopra e non arrabbiarmi al solo pensiero di quella donna».
«E come sta andando?» chiede lui.
«Sto diventando più emotiva e scettica... non sembra funzionare come mi aspettavo, ma almeno la violenza non è l'unica soluzione che salva ancora la situazione» sussurro.
Sto cercando di convincere me stessa.
Non lo sto dicendo a lui, lo sto dicendo a me stessa. Lo sto dicendo perchè ho ancora i miei pessimi modi di prendere le cose sempre nella maniera sbagliata. Fingo che sia passata la mia fase "aggressiva" da adolescente con gli ormoni un subbuglio, arrabbiata con il mondo intero. È vero anche che grazie ai miei amici sono migliorata, ma solo leggermente. Il problema è che sto reprimendo qualsiasi tipo di sentimento ed emozione che mi porti sulla strada della rabbia e nervosismo.
«Credo di dovermi scusare nuovamente con te» dice O'Conner, stringendo le labbra in una linea sottile e poi liberandole dalla persa e parlare: «Ho ascoltato Goffrey, pendendo dalle sue labbra come uno stupido e non avrei dovuto. Sei molto diversa da come mi aspettavo e sei una bella persona» dice lui, sincero.
Mi scappa un sorriso grazie a quelle parole, che mi rallegrano un po'.
«Forse Jinger aveva ragione» dico ora, io.
«Su cosa?» chiede lui confuso, come la metà delle conte in cui io dico qualcosa.
«Che siamo simili...» sbuffo in un sorriso.
O'Conner ancora confuso scuote la testa e il solito sguardo di incomprensione si mostra a me.
Le sopracciglia aggrottate e gli occhi assottigliati mi guardano curiosi, indagano sul mio viso aspettando che io parli.
«Non mi guardare così. Jinger è molto perspicace e quindi è normale che l'abbia capito al primo colpo» ridacchio io, domandandomi come Jinger sia arrivata a questa conclusione, per giunta corretta, o almeno per ora sembra così.
«E ora? Che hai intenzione di fare?»
«Credo di averti trattenuto per troppo tempo, ed essermi trattenuta altrettanto tempo. Quindi, devo andare...» concludo io, incoraggiandomi a rientrare in casa dopo la lunga e interessante chiacchierata.
Lo guardo per l'ultima volta prima di scendere e gli sorrido. Lui ricambia e sospira, prima che io apra la portiera.
«Allora a venerdì!» mi saluta lui mentre scendo dalla sua auto.
«A venerdì» dico in risposta, prima di chiudere lo sportello.
Faccio ciao con la mano e mi giro verso il passaggio di mattonelle quadrate, che mi conducono fino alla porta di casa.
Sto per toccare la maniglia della porta, quando la voce del ragazzo che ha parlato con me fino ad ora mi fa girare verso di lui.
«È stato bello parlare con te Roland» dice O'Conner, con lo strano tono di voce di chi è veramenfe sincero.
«Anche con te, Matt».

Spazio autrice.

HOLA PICCOLI MATTONCINI DI BURRO SCIOLTO IN UN GIORNO D'ESTATE!
Io continuo a rimandare e allungare le date di "scadenza" che mi impongo da sola.
Sono una persona veramente pessima e lo so. Che tristezza assurda :c
BEH, parliamo di cose veramente "importanti": che ne dite? Che ne pensate? Vi soddisfa? Quasi un mese di tempo per un buon motivo? Vero? Eh? Eh? Voglio direeeee! Ci ho messo molto impegno in tutto ciò, quindi... emh... no, okay, non è una scusa! Lo giuro! Ci ho messo tanto solo per la parte narrativa, perchè... scrivere sempre "dico, commento, rispondo"... diventa ripetitivo e quasi mi viene il nervoso e allora mi deprimo e mi passa la voglia di scrivere :c
Ma vabbeh! Okay, ora la parte davvero significativa di questo spazio per il mio sproloquio personale su ogni cosa!
...
Cosa ne pensate? Intendo di Thea e Matt! Sono tenerelli, no? Carucci loro.
Spiegano delle cose... che per loro sono molto importanti e che li hanno portati a fare, pensare e comportarsi in vari modi per motivi validi... e buh.
Ci sono state delle scoperte emozionanti su i due interessanti protagonisti! E basta... a parte questo... non ho altro da dire. Tutto molto carino e boh. Viva i fazzoletti all'aloe.
VIVA L'ALOE VERA *SNIIIIIFF*
VI AMO BASTONCINI DI PESCE SURGELATI :3
Tanto lov. ~scritto proprio come si dice u.u~
Ps. Grazie PetraIppolito ! Grazie per tutto, anche questa volta.

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