18 - Tutto tende all'ordine

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Dolore. Una fitta al petto che non credeva possibile. L'aveva ferito finalmente, era riuscita a scalfire quella corazza di dolcezza, lo aveva fatto arrabbiare. Lo aveva colpito. Non era quello che voleva fare, ferirlo, allontanarlo da lei? Perché allora il dolore era così forte da non permetterle di respirare? Doveva vomitare. Alzò lo sguardo verso l'orologio, erano passate due ore. Due ore senza Thomas, senza la sua presenza in casa, senza il suo bisogno di simmetria, senza il suo buttare qualsiasi cosa in corridoio, come se magicamente si potesse mettere a posto. Quel ragazzo aveva una fiducia illimitata nell'entropia, era questa la prima cosa che le era venuta in mente nel vedere il caos che creava sempre, mentre le altre stanze erano perfette.

Si alzò ancorandosi alla maniglia della porta e si trascinò fino al bagno. Si guardò allo specchio. Chi era quella ragazza che la guardava con gli occhi rossi e lo sguardo vuoto? Non la Neumalea che tutti conoscevano.

Okay Thomas non c'era ed era tutta colpa sua, ma quando mai aveva reagito in quel modo per aver allontanato una persona? Mai. Chiuse un secondo gli occhi, si lavò il viso e rientrò in salotto. I fogli erano ancora sul tavolo, la parte di Thomas impilata e la sua un caos pazzesco. Riordinò tutto, buttò per terra i fogli che non le sarebbero serviti e iniziò a studiare le mappe. Da quelle elettroniche poteva vedere che ogni mercoledì andava per via dei Priori, ogni venerdì si incontravano dietro il Duomo, ogni giovedì al Lago Trasimeno. Ma nulla, nulla le diceva cosa facevano la domenica. Prese le due cartine, una portava alla Trinità e una a Monte Tezio. Quale era quella giusta, quale? Doveva avere un minimo di senso, Alexander faceva sempre tutto per un motivo. Dove si va la domenica? Tutte e due i luoghi erano punti di ritrovo per le famiglie eppure c'era qualcosa che le sfuggiva. Prese un biscotto continuando a fissare la cartina. La Trinità stava sopra Monte Malbe, altezza 500 metri. La ragazza continuava a segnare con e dita le curve della cartina. Al Colle ci si arrivava in macchina. Monte tezio invece era alto 961 metri. Si ricordava le ripide salite e gli stretti sentieri del Tezio, la lupa quando ancora c'era e il panorama dall'alto. Si alzò di scatto. Sciocca che era stata. Sciocca e lenta. Era così ovvio, così ovvio! Li prendevano a quattro anni, erno piccoli. Troppo piccoli per riuscire a scalare Monte Tezio, ma non troppo piccoli per la Trinità. C'era il parco giochi, l'anfiteatro di pietra, il viale principale. Ecco dove andava il piccolo Alec la domenica con i suoi genitori! Non potava credere di essere stata così lenta. Si mise l'illusione, si vestì decentemente e uscì di casa e non vide la macchina. L'aveva presa Thomas. Poco male, avrebbe aspettato il pullman. La linea G arrivò dieci minuti dopo, con un ritardo totale di venti minuti. Alcune cose non cambiano mai e la G in ritardo era storia. Lea salì, pagò il biglietto e si mise a sedere sui sedili fatiscenti del veicolo, iniziando ad ascoltare la musica attraverso l'auricolare. Sarebbe stato quella sera. Provò a chiamare Thomas ma il suo auricolare era staccato e lei sentì una piccola fitta al petto, ma la ignorò. Molte persone si girarono verso il suo tatuaggio. Il taglio di capelli non le dava problemi in quel quartiere, in quell'epoca, in quell'autobus che collegava i peggiori posti di Perugia; c'era una ragazza con i capelli corti tutti sparati verso l'alto, verdi, un ragazzo con i capelli lunghi, due gemelle con la tinta grigia. Il tatuaggio faceva impressione. La palpebra dell'occhio era un punto molto doloroso, così almeno avevano detto a Lea quando se lo fece fare. Lei aveva scrollato le spalle e aveva detto che non le interessava. Sarebbe stato difficile trovare qualcosa nel ventunesimo capace di farle provare vero dolore fisico e gli aghi per quel tatuaggio non facevano eccezzione, erano stati come acqua fresca. Arrivò alla stazione e si prese da mangiare al McDonald, poi si mise a sedere sul prato vicino piazza del Bacio, una piazza che si trovava sopra il fast food. Quando vide arrivare verso di lei un gruppo di ragazzi nemmeno ci badò. Erano in cinque o sei, alcuni italiani altri stranieri, con la sigaretta in bocca, la birra in mano e l'atteggiamento di chi sa che sta facendo qualcosa di proibito e se ne vanta. Avevano tatuaggi sulle braccia scoperte dalle canottiere da basket e piercing sul viso. Probabilmente ne andavano fieri, si sentivano potenti.

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