«Tara, non fare stupidaggini! Torna qui!» Vittoria mi stava correndo dietro. Non mi ero ancora voltata per appurarlo, ma il rimbombo dei suoi passi dietro di me era inequivocabile. «Andiamo, ora fermati! Dico sul serio!»
Scossi la testa e continuai a correre. Qual era il suo problema? Era evidente che qualcuno – una donna, a giudicare dalle urla – fosse in pericolo; andare ad aiutarla era stata la decisione più logica che fossi riuscita a prendere, in quel momento. Onestamente non capivo cosa la turbasse così tanto.
«Smettila di fare la stupida e torna indietro!»
In tutta risposta, io oltrepassai il muretto con un balzo e mi voltai per scoccarle un'occhiata veloce. L'avevo distanziata di parecchio, ormai, e non c'era modo che potesse raggiungermi. Eppure Vittoria continuava a correre lungo la strada, con la gonna che svolazzava allo sbuffo del vento e l'elegante chignon sul punto di sciogliersi.
Voltai la testa con un sospiro e mi addentrai tra gli alberi. Le urla della donna si erano affievolite col passare dei secondi, lasciando spazio a gemiti e singhiozzi soffocati che spezzavano il silenzio del bosco. Camminando a zigzag tra radici esposte, buche e pigne rotolate a terra, mi dissi che non poteva essere troppo lontana; pochi secondi dopo, infatti, vidi un paio di gambe scheletriche sbucare oltre il tronco di un cipresso. La donna era rannicchiata a terra e si teneva la testa fra le mani, affondando le dita nodose nella zazzera di capelli grigi. Aveva gli occhi rossi e gonfi di lacrime, e le sue labbra rugose non smettevano di tremolare.
Sapevo bene di chi si trattava: quella era Elena, la vecchia pazza di Roccascura. Non le avevo mai parlato direttamente – mia madre, anni prima, mi aveva imposto l'obbligo tassativo di starle alla larga – ma in paese circolavano molte storie sul suo conto, e sapevo grossomodo cosa aspettarmi. Doveva aver avuto una delle sue visioni, posto che tutte quelle dicerie fossero vere.
«Elena, sta bene?» Mi accucciai davanti a lei, scrutandola brevemente da capo a piedi. «È ferita?»
Il suo sguardo si posò su di me. «E tu chi sei?»
«Mi chiamo Tara», risposi sottovoce. «Abito qui vicino. L'ho sentita urlare, poco fa. Si sente bene?»
Elena arricciò le labbra, evidenziando le rughe che le contornavano la bocca. «Le fragole. Quel farabutto mi ha fatto cadere tutte le fragole!» Sfilò le mani dai capelli stopposi e voltò la testa verso sinistra. «Le mie povere, bellissime fragoline...»
Seguii la traiettoria del suo sguardo; sparse a terra, sul manto erboso, c'erano diverse fragole scarlatte. Un cestello di vimini giaceva riverso poco più in là. «Gliele rimetto subito a posto. Lei si riposi un momento, va bene?» Gattonai sull'erba umida fino a raccogliere il cesto, stando attenta a non bagnare gli inviti che stringevo ancora in mano, e presi a recuperare le fragole una a una. «Non ci vorrà molto», aggiunsi, allungandomi per acchiapparne un paio poco più avanti. Ancora in ginocchio sull'erba bagnata, mi guardai attorno alla ricerca di qualche dispersa. Non ci impiegai molto a trovarne una: la fuggitiva se ne stava immobile tra i ciuffi d'erba, ben al di fuori del mio raggio d'azione. Mossi qualche passo a carponi e mi allungai verso la fragola, quando una mano apparsa dal nulla la raccolse prima che potessi farlo io. Alzai lo sguardo di scatto, ancora protesa in avanti e in equilibrio precario sulle ginocchia.
Guglielmo Castoldi mi scrutava dall'alto, facendo roteare pigramente la fragola per il picciolo. Indossava i pantaloni di una tuta, larghi e con l'elastico alla caviglia, e una maglietta grigia fin troppo tesa sulle spalle muscolose. «Perso qualcosa?» domandò, incurvando gli angoli della bocca.
«E tu?» ribattei secca. «Fossi in te mi darei una controllatina in testa. Ho come l'impressione che il tuo cervello sia andato a farsi un giro». Arricciai le labbra, posando il cesto accanto a Elena. «Posto che tu ne abbia mai avuto uno».
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Cacciatori di Leggende - Plenilunio [VERSIONE DEMO]
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