«La pace?» ripetei, indietreggiando di un altro passo. «Non pensavo avessimo litigato».
Edoardo, nel frattempo, continuava ad avanzare. La visiera del cappello gli lasciava in ombra la metà superiore del viso, ma il suo sorrisetto storto si vedeva fin troppo bene. «Mi dispiace per come ho reagito oggi, bambolina», disse, togliendo le mani dalle tasche. «Non avrei dovuto lasciarti lì da sola. Non avrei proprio dovuto».
«Perché sei qui?»
Edoardo si portò una mano all'altezza del petto, inclinando leggermente la testa. «Te l'ho detto, bambolina. Volevo scusarmi con te».
«E per farlo era necessario venire fino a Firenze?» domandai, inarcando un sopracciglio. «Potevi aspettare che tornassi, Edo. Ti saresti risparmiato il viaggio fin qui».
Un sorrisetto gli incurvò le labbra verso l'alto. «Non preoccuparti. Sono venuto con la macchina di mia madre».
«Cosa?» Mi resi conto di aver urlato, così mi schiarii la gola e aggiunsi a voce più bassa: «Ma tu non hai la patente! E non credo che Paola sarebbe molto contenta scoprendo che le hai rubato la macchina».
Un guizzo furbo gli illuminò lo sguardo. «Mia madre è l'ultima cosa a cui dovresti pensare. Non lo verrà mai a sapere, bambolina. E anche se dovesse farlo, beh...» Sorrise. «Troverei il modo di rimetterla al suo posto». Allungò un braccio nella mia direzione, mentre con la testa accennava verso un punto alle sue spalle. «Andiamo? La macchina è di là».
«Tu non hai la patente», insistetti. «E Roccascura non è esattamente dietro l'angolo». Non morivo dalla voglia di salire in macchina con uno che aveva a stento il foglio rosa, a essere sincera. Nemmeno se quel qualcuno portava la macchina incredibilmente bene. Tra l'altro Edoardo si comportava in modo strano da quella mattina, e l'idea di fare tutto quel tragitto da sola con lui mi metteva in ansia.
Che accidenti vai pensando?, mi rimproverai. Edoardo è uno dei tuoi migliori amici, non uno sconosciuto psicopatico!
«Prometto che andrò piano». Il suo mezzo sorriso, così strambo e insolito, mi fece rabbrividire. «Andiamo, bambolina. Non vorrai prendere il treno a quest'ora».
Io scrollai le spalle. «Non vedo il problema. E comunque non mi pare proprio il caso di andare con la macchina. Guidare senza patente è pericoloso, sia per noi che per gli altri».
«Per favore, piccola». Agganciò i pollici a due passanti dei miei calzoncini, attirandomi verso di sé. Il suo respiro pesante mi accarezzò le guance, e io dovetti trattenermi dall'arricciare il naso: dalla puzza di marcio del suo alito sembrava che avesse appena mangiato un topo morto. «Voglio soltanto che mi perdoni. Sono stato un coglione, stamattina».
Scivolai via dalla sua presa dolcemente, lanciandogli un'occhiata di sottecchi. Non era da lui dire parolacce, così come non lo era comportarsi in quel modo sfacciato. Onestamente, non capivo davvero cosa gli stesse succedendo. «Edo, sicuro di stare bene?»
La linea della sua mascella si tese, mentre il sorrisetto sfacciato gli si congelava sulle labbra sottili. «Perché me lo chiedi? Ti sembra forse che stia male?»
Io mi affrettai a scuotere la testa. «Al contrario. È solo che... non lo so. Sei diverso dal solito, Picchio. Tutto qui».
Molto, molto diverso dal solito. Praticamente un'altra persona.
«Sto benissimo», rispose, prendendomi per un polso. «E adesso andiamo». Mi diede le spalle e si avviò lungo la strada, trascinandomi a forza dietro di sé. «Si torna a casa».
«Aspetta un attimo». Puntai i piedi a terra e strattonai indietro il braccio, cercando di fargli mollare la presa. «Non è una buona idea, lo sai meglio di me».
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