Lo sguardo della bestia era fisso nel mio. Avanzava nella penombra a passo lento, trascinando le zampe deformi lungo l'asfalto, e il suo ringhio cupo riecheggiava nel silenzio della notte.
Io ero immobile, quasi ipnotizzata da quelle enormi biglie gialle che baluginavano nel buio. La consapevolezza che mi avrebbe ucciso aumentava man mano che la bestia si faceva più vicina, trascinando con sé quell'orrendo fetore di putrefazione e morte, ma io non riuscivo a muovere un muscolo. Me ne stavo lì in piedi, paralizzata, senza nemmeno avere la forza per chiamare aiuto.
Un altro passo.
Ora riuscivo a scorgere le punte acuminate delle sue zanne, grondanti densa bava giallastra mista a sangue. Non avevo mai visto un essere tanto ripugnante.
«Mia», ringhiò la bestia, chiudendo la distanza che ci separava con un balzo. Mi agguantò per le braccia con le zampe pelose e umide, affondando gli artigli nella carne, e mi strattonò contro il suo corpo caldo e pulsante. Il pelo ispido del suo stomaco mi punzecchiò le guance, e quella puzza fetida mi fece rivoltare lo stomaco. «Mia», ripeté la bestia in un ringhio, prima di affondarmi le zanne nella gola.
«NO!»
Mi tirai su a sedere di scatto, il cuore in gola e la vista appannata dalle lacrime, e scandagliai in fretta l'ambiente intorno a me. Ero nella mia camera, rannicchiata su un groviglio di lenzuola stropicciate, e la luce del sole penetrava in lame sottili dalle persiane chiuse. La bestia non c'era, e la mia gola era ancora intatta.
Era la prima volta che sognavo quanto successo quella sera e, se possibile, mi ero spaventata ancor più di quella sera stessa. Probabilmente, alla luce degli ultimi eventi, avevo assunto una consapevolezza diversa nei confronti del cinghiale.
Quell'essere era tutto fuorché un cinghiale, suggerì una vocina flebile nella mia testa, e tu lo sai benissimo. Quello era un lupo mannaro, è stato lui a uccidere tutte quelle persone. Non il cinghiale a cui credono tutti, ma un lupo mannaro.
«Queste cose non esistono». La mia voce era ridotta a un bisbiglio tremulo. «Non esistono».
Il ronzio del mio telefono mi fece trasalire. Il display lampeggiava a intervalli regolari nella penombra della stanza, cercando di richiamare la mia attenzione. Non avevo il minimo dubbio su chi fosse il mittente, quindi decisi di ignorare la chiamata e basta.
Negli ultimi due giorni, Edoardo aveva provato in tutti i modi a mettersi in contatto con me: telefonate, SMS, messaggi su Facebook e Whatsapp, commenti su Instagram; aveva addirittura chiesto a Serena di fare da intermediaria, ma lei, dopo aver saputo quel che era successo, aveva smesso di parlarci.
Dopo circa un minuto, il telefono smise di vibrare.
Finalmente, pensai, poggiando i piedi sul parquet fresco. Mi stropicciai gli occhi con le dita e sbadigliai a bocca spalancata, cercando di reprimere la voglia di rimettermi a dormire: il sonno non era certo la soluzione più adatta a tutti i miei problemi. Anche se – dovevo ammetterlo – rifugiarsi per sempre nel mondo dei sogni suonava allettante.
Andai a staccare il telefono dalla carica e sbloccai lo schermo; ripulii la barra delle notifiche senza nemmeno controllare chi mi avesse cercato – oltre a Edoardo, naturalmente – e un minuscolo sorriso si fece strada sulle mie labbra: quel giorno, ventuno giugno duemilaquindici, Giacomo avrebbe compiuto quattordici anni. Aspettavo quel momento da oltre nove mesi, ormai.
Presi il trolley celeste da sotto il letto e lo voltai, aprendo la zip della tasca posteriore; lì dentro, infilato in un'anonima busta da lettera, c'era il suo regalo.
Spinsi di nuovo la valigia sotto il letto e mi precipitai fuori da camera mia, ancora in mutande e coi capelli sparati da tutte le parti. Dalla cucina, intanto, arrivavano le voci ovattate dei miei genitori.
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