sesto capitolo

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Striscio per il corridoio e come un automa che non sa cos'altro fare, mi dirigo alla porta della sua stanza.

Per un attimo non trovo la forza di stringere tra le dita la maniglia e abbassarla, sento i brividi arrivarmi alle ossa e costringermi a scrollare le spalle.

Appoggio il capo sul legno liscio della superficie e sospiro, buttando fuori fiato che trattenevo da troppo tempo.

Per quanto mi sforzi, non ho l'effettiva forza di infliggermi altre sfilzate di dolore e malinconia, così indietreggio e sgattaiolo in bagno.

Credo che una doccia sia la migliore soluzione per rilassare i muscoli tesi e prendermi una pausa, mettere un punto a queste ore di ininterrotta adrenalina.

Oppure è solo il deterrente giusto che cercavo per evitare di entrare in quella stanza.

L'acqua fredda mi picchia forte sulla schiena da ormai un po' di tempo:

Forse all'inizio è stato quasi doloroso, angosciante, ma ora va meglio, ho la pelle talmente intorpidita che non soffro più questo contatto.

Il pavimento della doccia è più scomodo di quanto credessi, ma va bene lo stesso, le sedie dell'ospedale erano cento mila volte peggio.

Potrei uscire, ma non mi va. restare qua mi isola dai miei pensieri, dalle mie fisime, dalle mie preoccupazioni e tutto questo è egoisticamente confortante.

So che non dovrei permettermi di perdere tempo senza fare niente, mentre lui agonizza su un lettino d'ospedale, ma non sono mai stata brava a distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato.

E come se non bastasse, lo sento, è un impeto forte e violento, lo vedo: mi sto arrendendo.

Insomma, quanti ragazzi in coma si vedono in tv al telegiornale? Quelli su cui fanno reportage e tu li segui fino alla fine sperando che il poverino resista e quando questo non succede ti limiti a dire "ah, mi dispiace" e continui quello che stavi facendo prima, continui a cucinare, a stirare, cambi canale o ti alzi dal divano tanto ormai è successo e non si può fare niente.

Si va avanti, si dice.

Perché non dovrebbe succedere anche a me?
Per quale strambo motivo il mio finale dovrà essere diverso da quello degli altri?

La verità è che in questa vita non c'è giustizia.

Magari in una sparatoria il criminale resta vivo e il poliziotto muore, ma non ci sarà mai un vero motivo per il quale accade. È semplicemente la vita.

E quindi, a quelli che si chiedono
"Perché a me? Cosa ho fatto per meritarmelo?"

Suggerirei di girare la domanda
"Perché non a me? Cosa ho di diverso da tutti gli altri?"

E forse, accettarlo sarà più facile.

Chiudo l'acqua, strizzo i capelli e mi copro.

Mentre mi alzo, vedo il mio riflesso sullo specchio e trasecolo.

Non credo di essermi mai ridotta così, per nessun esame di ammissione, per nessuna tesi incompleta, per nessun niente.

Ho due occhiaie violacee che mi cerchiano gli occhi e spiccano sul volto pallido e scavato.

I capelli sono un disastro e quel poco di trucco sbavato che mi resta completa l'opera.

Sono irriconoscibile, quasi come un fantasma.

La gente mi vede, mi parla, mi tocca io sorrido, rispondo e annuisco ma non ci sono, e nessuno se ne accorge.

Mi infilo una sua felpa che probabilmente aveva dimenticato vicino alla doccia e vado in camera sua, un po' più rassegnata ma comunque ancora integra.

Mi infilo sotto le sue coperte e il suo profumo mascolino e prepotente mi pervade i sensi.

Mi stringo nel suo letto, mi dimeno alla ricerca del suo petto, della sua pelle liscia, dei suoi capelli ispidi, ma inutilmente.

Stringo gli occhi sperando di riuscire a dormire, mi dico glielo devo, se non chiederò occhio per tutta la notte, domani non avrò le forze per alzarmi.

Alle tre sono riuscita ad addormentarmi, non profondamente ma comunque dormivo.

Sentivo i passi di Milton scricchiolare sul parquet del corridoio quandi andava in bagno; sentivo i cani del signor Thompson abbaiare quando qualche macchina passava per la strada, sentivo il bambino della vicina di Matt strillare quasi allo scoccare di ogni ora.

Tutti i suoni mi entravano in testa e rimbombavano dieci volte più forti, senza abbandonarmi.

Questo calvario d'insonnia è andato avanti per circa un'oretta, poi, con mente arrendevole, sono precipitata nel sonno più profondo che potevo in quel momento concepire.

La mattina dopo, quando io ancora ero sotto le coperte della sua stanza, Milton si stava abbottonando la giacca e pettinando i capelli all'indietro.

Credo che abbiamo condiviso la notte in bianco, io per i miei motivi, lui per i suoi sensi di colpa ingiustificati, ma comunque fortemente persistenti.

Ha gli occhi iniettati di sangue e la pelle pallida, ma sceglie comunque di vestirsi di tutto punto, come si fa quando si deve ritirare un oscar.

Io ho perso la voglia di agghindarmi, di reagire alla forza negativa che mi sta risucchiando, di trovare un motivo per cui continuare la mia routine.

Quando mi stiracchio e corro in bagno a prepararmi, lui mi vede e mi sorride, e vedere una simile rassicurazione da un volto amico, mi fa sentire più sicura e determinata a non perdere le speranze.

Venti minuti dopo siamo già nella sua auto, e nessuno dei due sembra voler proferire parola.

A volte lo vedo guardarmi di sottecchi ma quando mi volto, lui sta già fissando la strada davanti al parabrezza.

Ho paura che tutti questi silenzi possano fargli male, possano deradare lentamente il suo solito animo gioioso e allegro, che non è da tutti avere.

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Scusate ma, se la storia vi piace, votate almeno...

Altrimenti mi vien da pensare che non la troviate interessante






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