Sono passati 11 giorni.
11 notti insonni, 11 mattine senza sole.
11 pagine senza paragrafi, 11 giorni pieni di nulla, di capitoli vuoti, fogli bianchi, rami secchi e inquietanti.
Il primo di questi 11 ho fissato per tutta la notte il suo volto scavato, deturpato dalle ferite e nascosto dalle fasce, senza batter ciglia.
È stato solo un altro attimo come tanti, improduttivo, in cui non è emerso nulla, niente si è risolto.
Il secondo giorno ricordo di aver dormito in tre panche diverse della sala d'aspetto mentre subiva il primo intervento alle prime luci dell'alba.
L'aria di febbraio era del tutto consona alla stagione, la sua glacialità mi pervadeva la pelle e ad ogni folata i brividi mi arrivavano fin dentro alle ossa.
Quando l'operazione è terminata, la dottoressa Jones, l'unica che pare aver notato la mia disperazione straboccare dagli occhi, mi ha degnato di una risposta.
Mi disse che aveva reagito bene sotto i ferri e si aspettava nell'incertezza di una complicazione successiva, che, per fortuna, non è arrivata.
Il terzo e quarto giorno Milton mi ha pregata di tornare a casa con lui e riposare, ma io, quasi automaticamente, ho rifiutato.
Non ho per la testa altri pensieri che quello di stargli vicina, seguire i suoi progressi e regressi e assicurarmi che stia bene, relativamente a quanto questa situazione glielo permetta.
Sento che non posso fare altro, e allora daró il massimo che posso concepire.
Il quinto giorno alle quattro di una domenica fredda, grigia e buia, hanno dovuto attaccargli un altro surrogato di supporto per il drenaggio di liquido dai polmoni.
Ho pianto tutto il sale che mi rimaneva e mi sono anche sentita davvero risucchiare dall'impeto e dalla violenza della depressione.
Peró poi, in un momento fulmineo, ho pensato che questo posto, questo ambiente e questa situazione mi hanno già levato un nonno, una nonna, un amica, la migliore ed ora ció di cui vivevo ogni giorno.
Non potevo permettergli di annullarmi, di uccidere anche me, cosí ho reagito.
Il settimo giorno, dopo il sesto di cui ho un vago e confuso ricordo, ho ricominciato a sorridere.
Forse per finta, per farmi coraggio, per rassicurarmi, per illudermi di stare meglio, ma comunque ho sorriso.
Sorridevo mentre gli raccontavo la mia giornata con la sua mano stretta salda e posata sul mio grembo, con il cielo arancione e le macchine lontane.
Sorridevo mentre prendevo il caffè al distributore che sapeva piú di acqua calda che di espresso,
mentre lasciavo la stanza senza vedere in lui miglioramenti.
Il nono giorno ho alzato gli occhi al cielo terso e ho riso senza finzioni.
Quel giorno il sole splendeva un po' di piú dietro le nuvole dell'azzurro tranquillo, il freddo era meno prepotente e i passeri pigolavano con piú gioia.
Quel giorno Matt è riuscito a respirare senza la tracheotomia, per la prima volta.
Come un bambino che nasce, che lascia la pancia della madre e il suo cordone ombelicale senza saper dove si va e soprattutto cosa succederà.
È riuscito a fare un passo avanti dopo 100 verso la fine.
Ma io lo sapevo, Matt non sarebbe finito cosí.
Matt non sarebbe finito ucciso dal destino, commiserato e dimenticato nel silenzio, come tanti ragazzi innocenti.
Sembra quasi impossibile imporre il proprio volere sopra all'inesorabilità del destino, ma io lo sentivo, era una cosa che mi palpitava nel cuore fin dal principio, era una certezza che viveva dentro me.
Ma l'undicesimo giorno, Dio, è successa la cosa piú bella di tutte.
Ero nella sua stanza a leggere le cose che leggeva lui, a gustare i sogni che allietavano le sue notti, a biascicare parole estrapolate da libri nelle sue mensole, ad ascoltare i suoi vecchi vinili nel mangiadischi di sua madre, quando, scostando tre volumi dalla rilegatura rossa consumata, ne è scivolata via un'agendina nera lucida, con i segni di penna solcati nella copertina.
Dal momento che Matt non sembra una persona da diario segreto, ne tanto meno qualcuno che prende appunti e, non per altro sono celebre tra i miei per la curiosità, non ho girato a lungo sull'idea di leggerne il contenuto: è cosí ho fatto.
È una calligrafia inconfondibile, è proprio la sua.
Il testo è tutto in corsivo, tagliato su certe parti, sottolineato su altre.
Poso lo sguardo sulla prima lettera della prima parola del primo verso della prima storia che leggo scritta da Matt, e capisco che non ho mai vissuto veramente in vita mia come in questo momento.
Il fiato mi si serra in gola, le mani mi tremano.
"Si dice che per innamorarsi di una persona si impieghino sei secondi.
Basta guardare quel qualcuno negli occhi per una manciata di sottilissimi, insignificanti e impercettibili istanti per perderci la testa.Per me no, non è stato cosí, anzi, fino a poco tempo fa avrei senza problemi affermato che si tratta quasi di una cazzata detta da qualche tizio per avere una buona nomina ed essere ricordato anche da morto.
Io si, mi sono innamorato, cazzo, se mi sono innamorato. Ma non è stato cosí semplice ed idilliaco, come per le coppiette sdolcinate e insopportabili dei film. È successo tutto tra un odio e un altro, un "vaffanculo" e un "bigotta", tante lacrime e pochi sorrisi.
"Mi sono innamorato di lei la prima volta che ho posato lo sguardo sul suo viso"
Sbagliato cazzo, sbagliato.Io ricordo che la prima volta che l'ho vista, sulla soglia di casa mia, l'ho immediatamente ripudiata.
Con quegli stivali cosí alti, la maglia larga tre volte il suo peso e quei pantaloni beige, per me era l'ultima persona da considerare. L'ultima con cui parlare, ma soprattutto,
La prima di cui vergognarsi.La odiavo, tanto, tantissimo, e la cosa che avrebbe dovuto preoccupare era il fatto che non le avevo ancora nemmeno rivolto la parola.
Le avevo solo sbuffato sul viso quando me l'ero trovata davanti.
Ricordo perfettamente il suo naso che si arricciava, le sue gote diventare rosee dall'imbarazzo e il suo nervosismo crescere ogni istante che le stavo vicina.
Era rimasta cortese anche quando l'avevo spudoratamente mandata a quel paese, e oggi la ringrazio.
Se lei quel giorno non fosse rimasta nonostante gli insulti, l'irritazione, l'indisposizione, se fosse fuggita in lacrime come una delle tante scolarette che conosco, tutto questo non esisterebbe.
Noi non esisteremmo.
E sei lei non mi avesse aspettato nei miei mille sbagli di ogni giorno, oggi sarei perso.
Perchè da quando conosco Caitlin Arnold, vivo esattamente di lei.
Delle cose che mi da, delle emozioni che mi fa provare e che non credevo di poter sentire, del bisogno di baciarla, di sentire la sua pelle contro la mia, cuore contro cuore, battito dopo battito, carezze dopo urla.
Ma il clamore, la cosa terribile, ció che mi dilania, è il fatto che ogni giorno volendolo o no faccio qualcosa per farla stancare, arrivare al punto di non ritorno, quello in cui la perderó:
È ho paura, piú di quanta ne abbia di qualsiasi cosa, anche della morte perchè a dir la verità, la mia morte sarà quando sapró che lei non è piú mia.
Che ho perso, ho perso tutto."
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Tutto Quello Che Non Sai
RastgeleNon è forse proprio quando ci si sente fieri e orgogliosi di ciò che si ha, che si rischia di perdere tutto?