Who really cares?

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Capelli aggrovigliati, labbra screpolate e occhi stanchi, contornati da pesanti occhiaie nere: il mio riflesso, nello specchio del bagno, parla chiaro.
È l'ennesima notte che non riesco a dormire senza svegliarmi all'improvviso.
Sempre il solito incubo.
Ormai, ho terminato le scuse: mamma non si berrebbe un'altra volta che è colpa del russare di Nicky.
Tento di disfare alcuni nodi con il pettine (senza successo) e mi lavo il viso con acqua gelida.
Mi guardo.
No, non sono nemmeno lontanamente pronta, ma devo accontentarmi: il treno partirà tra qualche minuto e io sono in ritardo.
Passo in soggiorno, do un bacio a Nicky e alla mamma, le quali dormono ancora.
Esco dal Buco senza nemmeno chiudere a chiave la porta perché lì, a Redfern, non lo fa mai nessuno.
Ci considerano reietti, pericolosi e pazzi, gente da stare alla larga, insomma.
Sì, lo ammetto, alcuni di noi non hanno proprio abitudini legali: c'è chi spaccia, chi non paga le tasse e chi possiede armi non registrate.
Le case sono fatiscenti, i muri pieni di graffiti e l'asfalto non è esattamente in ottime condizioni...
Tuttavia è casa.
Verso mezzogiorno profumi di mille culture si mescolano e, verso sera, ci si ferma a parlare con il vicino sul ciglio della strada.
Prima del Giorno, apprezzavo la quotidianità, ma ora non ho più il tempo di farmela piacere.
So che quando mi vede per strada, la gente parla.
Un tempo me la prendevo, ma adesso non mi interessa più.
Mamma, Nicky e Michael sono gli unici a cui rivolgo la parola.
Arrivo in stazione con il fiatone e riesco per un soffio a prendere il treno delle 6:04.
Mi siedo suo primo sedile vicino al finestrino e tiro fuori dallo zaino il vecchio iPod che ho trovato un giorno per terra.
Non mi sono mai posta domande sulla sua provenienza, mi sono limitata a far partire la musica in modalità shuffle.
In seguito ho chiesto a Michael di procurami un caricatore, e così è stato.
Dopo qualche fermata, il treno si riempie: giovani studenti, anziani e pendolari occupano tutti i posti rimanenti.
Nessuno si siede vicino a me, come al solito: tutto del mio aspetto, dalla radice dei capelli fino alla punta delle mie scarpe consumate, urla "Redfern".
Una donna mi fissa schifata e tenta di allontanarsi il più possibile, solo che inciampa nei tacchi altri e finisce addosso a un ragazzo.
Ti sta bene, stronza.
Quando il treno arriva a destinazione, mi alzo in piedi. La folla si separa come le acque del Mar Rosso mentre esco.
Cammino spedita, non guardo in faccia nessuno e, in due minuti, arrivo davanti allo studio di tatuaggi.
Già, ho un lavoro.
Michael mi paga una miseria, ma perlomeno ho un impiego fisso.
« Ehi Kat. Oggi abbiamo tre appuntamenti, tutti questione di poco. »
Lo guardo e annuisco.
Michael è un bravo tatuatore: le persone vogliono che sia lui a fissare sulla pelle un pezzo della loro storia.
Nella maggior parte dei casi, a mano libera.
Si fa raccontare qualcosa della vita di ognuno e dopo una mezz'ora è pronto per il capolavoro.
Anche una cazzata, se disegnata da Michael, acquisisce importanza.
È un ottimo ascoltatore e, cosa ancora più importante, non parla molto.
Forse è per questo che andiamo tanto d'accordo.
Mi metto a spolverare i tavolini con le riviste di tatuaggi, le ordino per grandezza e spazzo per terra.
Tutto questo, sotto lo sguardo attento del mio capo.
I suoi occhi azzurro-verdi saettano di qua e di là e con la mano destra si sistema i capelli.
La settimana scorsa se li è fatti blu e ha ricevuto una marea di complimenti, soprattutto dalle ragazze.
« Stavo pensando... » dice all'improvviso.
Alzo lo sguardo incuriosita e attendo che continui.
« Potrei insegnarti come si fa a tatuare, almeno ti alzerei un po' la paga. »
Faccio spallucce, tentando di fingere indifferenza, ma in realtà sono sorpresa.
Michael fa per andarsene nel retrobottega, ma io lo fermo.
« Perché questa decisione? »
Lui mi osserva e fa un sorrisetto furbo.
« Credi che non mi sia accorto dei disegni che butti nella pattumiera? »
Abbasso gli occhi al pavimento e continuo a pulire.
« Cazzo, hai talento. » esclama, prima di sparire.
Rimango sola, abbastanza soddisfatta ma anche leggermente tesa: non ho mai detto a nessuno della mia passione.
Nemmeno mamma e Nicky ne sono a conoscenza.
« Vieni o no? »
Lo seguo nel suo studio, però mi blocco sulla porta perché è stupendo.
Le pareti sono tappezzate di graffiti e di disegni, disegni di qualsiasi genere: animali coloratissimi, simboli tribali, ritratti a matita.
Michael mi fissa con un'espressione indecifrabile e si avvicina alla scrivania, al contrario del resto, ordinatissima.
Mi fa un cenno.
Faccio qualche passo e vedo uno schizzo su un vecchio blocco da disegno.
« Questo l'ho fatto pensando a te. » sussurra.
È un fiore di loto racchiuso in lingue di fuoco ardenti; può sembrare qualcosa di semplice, ma si può percepire benissimo  la delicatezza dei petali candidi e il calore delle fiamme.
Guardo Michael, sperando in una spiegazione.
« Il fiore di loto significa "purezza", come il tuo nome. Sapevi che è di origine greca? »
All'improvviso, le orecchie iniziano a fischiarmi e sento brividi ovunque.
Pura, io?
Michael continua, ignaro di quello che sta scatenando:
« Le fiamme rappresentano le difficoltà, gli ostacoli. Come puoi notare, però, il fiore di loto non si piega al loro calore, anzi, combatte. »
Fa una pausa.
« Anche se non sembra, io ti osservo, e mi importa di te. »
« No. »
È troppo per me, così corro via.
Non penso alla direzione che sto prendendo, alle persone contro cui vado a sbattere, a Michael o al dolore che mi ha causato.
Mi bruciano gli occhi, ma non piango.
Sono anni che mi è impossibile piangere.

// Spero vi piaccia :) //

My last tearDove le storie prendono vita. Scoprilo ora