Passato

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"Questa?" domando, incredula. Lo sceriffo e i ragazzi mi hanno appena condotto davanti ad un minuscolo cottage composto da sì e no tre piccole camere, tutto sgangherato. Costruito con cemento e travi di legno lì dove il muro è crollato. Il tetto è spiovente è composta da pannelli di ferro zincato, ammassati uno sopra l'altro e assicurati al resto della "casa" con dei chiodi arrugginiti.
Stilinski si stringe nelle spalle e sussurra un "Sì" dispiaciuto. In quell'istante capisco che dalla mia reazione sembra che non mi piaccia affatto, invece lo amo.
"Ed è tutto per me? Oh mio Dio è la casa più bella in cui abbia mai vissuto in quest'ultimo anno!" esulto, quasi con le lacrime agli occhi.
Ho una casa tutta mia. Esclusivamente mia. Dove posso dormire su un vero letto, mangiare da sola su un vero tavolo e soprattutto godermi un bel bagno in santa pace, senza preoccuparmi di non occupare la vasca troppo a lungo.
Quando ho iniziato il college, dovevo condividere gli spazi solo con Kamilla, e non è stato affatto fastidioso. Ma da quando è scoppiata l'apocalisse e ho scoperto la formula, vengo trascinata da un accampamento all'altro, costretta a mangiare e a condividere il bagno con i soldati della base.
Ringrazio lo sceriffo, che sembra ancora incredulo della mia gratitudine e se ne va per lasciarmi la mia privacy. Poi Ash e Jordan mi spiegano che devono rimanere con me, ma per fortuna solo fuori dalla porta, a controllare l'ingresso.
Così entro nel cottage e ammiro l'interno. Una persona abituata agli agi di una vita normale la definirebbe squallida, e non ci dormirebbe neanche se la pagassero. Ma noi siamo in crisi, con milioni di zombie che minacciano di morderci la gola e mangiarci il cervello, e quello che vedo non può che sembrarmi il lusso fatta abitazione.
Svelta, mi dirigo nel piccolo bagno, che anche se non è ordinato, perlomeno è molto pulito. Riempio la vasca di acqua tiepida e quando mi sono spogliata, mi ci immergo.
Finalmente, per la prima volta nella mia vita, sono davvero sola.

Ho passato i primi anni della mia esistenza -fino ai 7 anni- in una casa grande e accogliente in quella che una volta era questa città: Lawrence, nel Kansas. Abitavo con i miei genitori ed eravamo felici: la tipica famigliola felice.
No, forse "tipica" è un aggettivo sbagliato, dal momento in cui mio padre è un cacciatore e, per questo e per altri motivi, siamo sempre stati a stretto contatto con il mondo che nessuno fino ad un anno fa conosceva.
Comunque eravamo contenti, poi qualcosa si è rotto. Non mi ricordo bene, dato che ero ancora piccola. Ma credo che sia stata colpa mia.
Mia madre ci ha abbandonati. Mio papà mi ha preso con sé e abbiamo condotto una tipica vita da cacciatori. L'unica differenza è che mi ha sempre permesso di andare a scuola. "Sei la bambina più intelligente del mondo" mi ripeteva baciandomi sulla testa. "Non voglio impedirti di studiare e sprecare tutto il tuo potenziale"
Ero felice, amavo quella vita. 'Studia tutto il giorno e caccia tutta la notte.' era quello il mio motto. Lui era così fiero di me: non avrebbe mai voluto che sua figlia diventasse una cacciatrice, ma aveva capito che quella era una mia scelta, non mi aveva costretta nessuno.
Certo, non era una vita facile per una ragazzina, ma io la amavo comunque.
Poi sono arrivata ad un bivio e la vita mi ha impedito di proseguire con quella filosofia. Mi ha chiesto di scegliere: caccia o college, perché per quanto fossi intelligente, non sarei mai riuscita a condurli entrambi contemporaneamente.
Papà mi ha sempre incitato a continuare gli studi, ripetendomi che era così fiero di me, perché gli ricordavo tanto mio zio, ma io non volevo abbandonarlo. Non volevo lasciarlo da solo.
Abbiamo discusso così tanto e alla fine ho deciso di proseguire gli studi. Avevamo promesso di mantenerci in contatto, ogni giorno, ed è stato così per i primi tre mesi. Poi l'invasione è cominciata, e io l'ho perso.

Quando mi stanco di stare ammollo nell'acqua, esco e, dopo essermi asciugata, mi vesto. Nell'armadio sgangherato che c'è in camera trovo una moltitudine di vestiti immacolati e perfettamente sturati, scelti dal direttore della base, un uomo molto importante in questo delicata periodo di crisi.
Indosso un elegante paio di pantaloni verde oliva e una bianchissima camicetta leggera. È così candida da stridere con il resto del mondo, che giace nella polvere e nella desolazione.
Faccio per uscire di casa quando noto una superficie riflettente. Torno sui miei passi e mi guardo allo specchio, osservo il fantasma di quello che ero una volta: il volto magro e le occhiaie profonde sotto quegli occhi neri come la pece e leggermente a mandorla che ho preso da mia madre. La carnagione pallida che fa spiccare le labbra rosee e carnose, ma che mi fa sembrare ancora più magra e denutrita di quanto già non sia. Non che il cibo mi manchi, certo, ma le porzioni sono pur sempre minuscole e insufficienti.
D'altro canto con tutti questi cadaveri ambulanti la produzione di cibo è stata interrotta e in America siamo in tanti, davvero tanti.
Distolgo lo sguardo e, dopo essermi infilata un paio di stivaletti, esco di casa. Lì incontro le mie guardie del corpo che mi spiegano i programmi della giornata: "Per prima cosa andremo nel cuore della base, il quartier generale. Nell'ufficio incontrerà il Capitano, il direttore della maggior parte delle basi militari degli USA, che le darà il benvenuto" spiega Ash. "Poi proseguiremo nei laboratori di chimica, dove incontrerà Kamilla e Mills, il quale le mostrerà tutti gli ambienti e gli strumenti del reparto" aggiunge Jordan, serio come sempre.

I ragazzi mi scortano fino al quartier generale del Capitano. Quel posto è immenso, brulica di militari, guardie del corpo, addetti ai macchinari, tecnici informatici che lavorano chini e instancabili sulle tastiere dei loro computer e centralinisti impazziti che rispondono ai telefoni che non smettono mai di squillare. Il rumore di passi, voci, squilli e dita che corrono sulle tastiere è assordante.
Al centro di quell'enorme sala, si erige l'ufficio del direttore, sopraelevato. Saliamo silenziosamente le scale e quando entriamo, il rumore si estingue completamente. Sospiro, sollevata; mi stava già venendo mal di testa.
"Signorina! Molto piacere! Io sono il Capitano, come già saprà" esclama un uomo di circa settant'anni, con i capelli e un paio di enormi baffi bianchi alzandosi dalla sua scrivania e stringendoti la mano. "Ho detto a questi due giovanotti di portarti qui per salutarmi e darti il benvenuto. Ebbene: benvenuta al campo! Ora, se mi vuole scusare, passiamo alla ragione per cui ti ho davvero voluta qui" borbotta, sorridendo tutto compiaciuto.
È assurdo: una fabbrica di parole, non si ferma un attimo! Lui si arriccia un baffo tra le dita. "Bene, bene. In realtà ho una sorpresa per lei. Anzi! Ne ho due!
Mi dispiace di averla fatta salire di quassù per poi farla scendere subito dopo, ma fuori da questo chiassoso quartier generale, ci sono due meravigliose sorprese!"
È così gentile che è impossibile non farselo piacere... mi ricorda Babbo Natale. Come diavolo a fatto a diventare praticamente l'uomo più importante d'America con tutta quella dolcezza in corpo?
"Forza, forza!" ripete, facendomi voltare e invitando i miei uomini a scortarmi fuori. Così scendiamo le scale, e attraversiamo la sala, fino a raggiungere l'uscita.

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