III. L'appartamento

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Seduto in quel bar con Pavel, come spesso accadeva, mescolando il mio caffè stavo ad ascoltarlo mentre parlava del suo amato Chopin. La sua passione per quel musicista era diventata morbosa, quasi ossessiva, e lui non sembrava accorgersene. Gli dissi che l'avrebbe portato alla pazzia, ma non volle mai prendermi sul serio. Pavel e i suoi dannatissimi notturni.
In quello stesso bar, qualche mese prima, osservavo con grande curiosità una ragazza seduta in fondo alla sala, accanto alla vetrina, che sul tavolino aveva sempre un quaderno - che in seguito scoprii essere di testi musicali - e almeno un libro. Rimanevo sempre affascinato dal suo modo di fare, dalla delicatezza dei suoi gesti. Aveva spesso gli occhi semichiusi ma fissi avanti a sé, e muoveva la bocca ripetendo, in silenzio, parole che non riuscivo mai a comprendere.
Era Sofia. Decisi di compiacere la mia curiosità quando, un pomeriggio di primavera, la vidi uscire dal palazzo adiacente al mio in compagnia di Anna.

Anna, la figlia del dottor Kovac, il proprietario del mio appartamento, l'avevo conosciuta alcuni mesi prima quando si era presentata al posto di suo padre per consegnarmi le chiavi di casa - sapete, il dottor Kovac non è un uomo al quale piace mostrarsi troppo in pubblico, così quel giorno mandò Anna - una ragazza poco più piccola di me, dal seno prosperoso e le curve piuttosto generose, gli occhi verdi e i radi capelli rossi.
Entrammo immediatamente in sintonia, lei rideva spesso e mi prendeva un po' in giro, io avevo già capito tutto.
Fu lei ad aiutarmi i primi periodi nella nuova casa, fu lei a regalarmi delle lenzuola bianche che subito misi nel letto. Fu lei che, per la prima volta, fece l'amore con me su quelle stesse lenzuola, e per un po' mi credette suo. Ma io ero inafferrabile e lei non lo aveva capito, o forse sì, e per questo si era innamorata di me. Le donne si innamorano spesso di chi non possono avere. Anna disponeva di tutto ciò di cui avessi bisogno, era dolce, sufficientemente bella, affettuosa, innamorata di me. Eppure, io non la desideravo se non fisicamente. Probabilmente tutti gli esseri umani hanno l'abitudine di innamorarsi della persona sbagliata.
Solo ora mi è chiaro quanto avessi bisogno di colmare una mancanza, bisogno di qualcuno da rendere felice, non di qualcuno che rendesse felice me.
Facevamo all'amore spesso, e pur non essendo una vera relazione mi soddisfaceva, lei mi credeva suo, io non le dicevo mai di sì, ma neanche di no. Giocavo ad essere intrigato dalla sua folle passione, ma per me era solo un gioco, io ero in attesa dell'amore, l'amore vero.

Quel pomeriggio di primavera, le vidi insieme. Presi coraggio e scesi, rincorrendole con una scarpa ancora slacciata. Con una scusa chiamai Anna e si fermarono, si voltò e la vidi sghignazzare, doveva essere molto felice di vedermi. "Sofia - disse allegra - lui è Hugo, un nostro caro amico di famiglia".
Quella ragazza mi sorrise.
Vidi per la prima volta il suo volto in un'espressione diversa da quella nel bar, e per la prima volta i nostri sguardi si incontrarono, eravamo finalmente faccia a faccia. Avevano fretta e poco dopo mi salutarono, così me ne tornai a casa. Era troppo tardi per tutto ormai, il mio cuore aveva deciso, fatto la sua scelta. Sofia. Di quella ragazza mi sarei innamorato, perché sono così, io, se non mi innamoro subito di una persona, poi non lo faccio più. Riesco sempre a capire chi mi ruberà il cuore e a chi lo ruberò, mi basta un solo sguardo. Quel giorno, Sofia, mi aveva già convinto, ma il vero problema era spiegare ad Anna che in realtà il mio cuore non era suo, e non lo era mai stato. Spiegarle che da quel momento in poi sarei appartenuto solo a Sofia, e a nessun'altra. Non consideratemi un bambino avventato, so quello che faccio, ma a volte le mie emozioni corrono più veloci dei ragionamenti, e poiché raramente incontro persone in grado di farmi innamorare, resto volontariamente sui binari per essere colpito dal treno delle emozioni. Senza amore la mia vita è davvero grigia, ed io ho bisogno di colori per essere felice. Non credete a chi dice che anche senza amore si possa essere felici, spesso chi parla così è ferito ed è in attesa di qualcuno che probabilmente non tornerà mai. Senza amore si vive, ovviamente, ma non si è felici. Mai.
La sera di quello stesso giorno, Anna venne a bussare alla mia porta. Aveva interpretato il mio gesto nel modo sbagliato, ma non sapevo come introdurre l'argomento vedendola così vogliosa ed esaltata. Non ebbi neppure il tempo di aprire bocca che mi ritrovai seminudo sul letto mentre lei era sopra di me baciandomi con passione sfrenata. Odio l'aggressività nel sesso quando non sono io a volerla, ma, ahimè, non ebbi la forza di fermarla.
Più tardi realizzai che avevo inconsciamente fatto la mossa sbagliata, Anna aveva sempre cercato un gesto da parte mia, lei era sempre stata la più debole tra noi, quella che amava di più, ed era sempre stata lei a venirmi incontro. Quel pomeriggio, con una scarpa ancora slacciata, l'avevo raggiunta correndo per dirle una cosa tanto banale da non ricordarla neppure! Come avrebbe potuto, con gli occhi dell'amore, capire che le mie attenzioni erano rivolte in realtà alla sua amica? Ero confuso, Anna non aveva mai fatto l'amore con me come quella sera. I suoi occhi erano felici, io no. Dormiva, il braccio attorno alla mia vita, la testa poggiata sul mio petto. I miei occhi indagavano le crepe nel soffitto mentre le mie dita arricciavano le punte dei suoi capelli ispidi. Non l'amavo, non l'avevo mai amata. In quel momento capii che non la stavo rendendo felice come lei credeva, anzi, la stavo uccidendo giorno per giorno, donandole, seppur involontariamente, la speranza che prima o poi sarebbe cambiato tutto, che presto avrei iniziato ad amarla senza una logica, o un motivo. E l'avevo fatto, proprio quel pomeriggio, rincorrendola in strada.
Mi alzai, schifato da me stesso e dal destino, e accesi una sigaretta affacciandomi dalla finestra. Le luci brillavano nel buio notturno, e la bellezza di Praga mi rapì a tal punto che quasi ebbi voglia di piangere. Rimasi incantato per qualche minuto, con la cicca consumata fra le dita, ad ascoltare il silenzio della città ed il rumore del fiume.
Sentii il fruscio delle coperte, mi voltai. Era stato probabilmente l'odore del fumo a svegliarla, era lì che mi fissava, chissà da quanto, sdraiata sul fianco con le lenzuola che le fasciavano il seno e la testa poggiata sul pugno. Rimasi in silenzio, poi presi coraggio. "Devo parlarti" le dissi, e d'improvviso il suo sguardo si fece più cupo e preoccupato.
Stavano per dire al vincitore che in realtà aveva perso, o che forse non aveva mai vinto.

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