Capitolo 14.

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C'era una crepa sul soffitto. Era sottile e tagliava l'intonaco bianco in diagonale, da un angolo all'altro della stanza. Erano quasi tre anni che dormivo in quella stanza e non ci avevo mai fatto caso, fino a quel momento. Supposi che fosse quel genere di cose di cui una persona si accorge quando passa la notte insonne a fissare un punto sopra la propria testa, invece che cercare di dormire.

Mio padre era rimasto con me anche dopo cena, aveva sparecchiato e lavato i piatti mentre io cercavo il film. Poi, si era seduto accanto a me sul divano ed avevamo guardato insieme Dirty Dancing, anche se non era esattamente il suo genere di film: Poppy non l'avrebbe mai fatto. Fin da piccola, quando trascorrevamo del tempo insieme e lui faceva qualcosa per me, mi chiedevo se mia madre l'avrebbe mai fatto. "Mamma lo farebbe?", la risposta era sempre no. Poppy non mi avrebbe mai portata a Santa Monica per andare al Luna Park. Non mi avrebbe mai permesso di mangiare gelato e zucchero filato per cena. Né mi avrebbe concesso di andare sulle autoscontro. Poppy non si sarebbe mai sognata di portarmi a vedere un film in un sudicio cinema e di comprare dei popcorn al burro, per paura delle calorie che contenevano. Col tempo, avevo iniziato anche a dubitare che sapesse della mia allergia alle arachidi. Cosa che, invece, mio padre sapeva. Jen, Lydia, Jo, Hunter e, persino Jared, ne erano a conoscenza. Forse, lei non avrebbe nemmeno saputo come somministrami l'adrenalina.

Guardai l'orologio, le due del mattino di mercoledì. Questo voleva dire che mancavano poco più di ventiquattro ore alla cena con Poppy. Era difficile costringermi a pensare a lei come "mamma". Poppy era più semplice e  formale, come il nostro rapporto.

Chiudi gli occhi, Alex. Mi ripetei. Dormi.

I miei occhi non ne volevano sapere di chiudersi. Quel giorno avevo lezione, e dovevo anche alzarmi presto per la mia solita corsa mattutina: dovevo pur bruciare in qualche modo tutto ciò che ingurgitavo. Avevo provato con la meditazione e con il training autogeno, ma il mio cervello non ne voleva proprio sapere di spegnersi. Gollum non mi aiutava, e non riuscivo a metterlo a tacere. Mentre la parte razionale di me, cercava di rassicurarmi, lui continuava a mostrarmi possibili scenari disastrosi: mi faceva venire i brividi.

È solo Poppy, cos'altro potrebbe fare che non ha già fatto? Era davvero difficile non pensarci. Il fatto che mi avesse contatta la sua assistente poi, era tutto un programma.

Ti chiederà di andare a vivere con lei, rabbrividii. Dovevo fare qualcosa per quel problema, Gollum doveva morire. O, mi avrebbe uccisa lui. Tra le due, era più probabile la seconda. Sentii Jocelyn rientrare, in compagnia, e la porta della sua camera chiudersi. Rimasi in attesa per sapere se era meglio usare i tappi che avevo comprato, ma non percepii nessuno strano rumore provenire dalla sua stanza, quindi lasciai perdere.

Chiusi gli occhi e mi misi a contare le pecore, fu inutile. Morfeo non ne voleva proprio sapere di accogliermi nel suo caldo abbraccio.

Mi girai di nuovo verso l'orologio, le quattro. Mi alzai dal letto, presi l'IPod da dentro la borsa e mi stesi a terra, anche se ero consapevole del fatto che non mi avrebbe aiutata a dormire. Avviai la riproduzione casuale e partì un brano tratto dal quarto album, di una delle mie band preferite, gli Shinedown. Possedevo tutti i loro CD e Amaryllis, -questo era il titolo dell'album, non che il nome del mio fiore preferito-,  era quello che prediligevo in assoluto. Era uscito accompagnato da un eBook che descriveva come i membri avevano scritto i brani, e spiegavano il significato che questi avevano per loro. Il file si apriva con una citazione del cantante, una frase che mi aveva sempre colpita. Una che proprio in quel momento della mia vita, mi sembrò parlasse di me: non essere delicata, sii vasta e luminosa. Quelle parole, mi avevano sempre toccato nel profondo, ma non ne avevo mai compreso a pieno il significato fino a quel giorno. Negli anni, mi ero sempre sforzata di occupare poco spazio, di passare inosservata. Di essere piccola e invisibile davanti agli altri. Ma, ora che non ero più delicata, capivo. Era arrivato il momento di vivere e di smetterla di lasciare agli altri il controllo. Non dovevo più nascondermi. Era arrivato il momento di prendermi il mio spazio. Di brillare. Era una cosa di cui volevo ricordarmi. Che volevo portare con me, sempre. Scritta addosso, incisa sulla pelle: nero su bianco.

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