Hatun

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"Quando non sai dove andare, meglio non essere timido, e chiedere indicazioni" mi aveva detto qualcuno, ormai secoli fa. Ora stavo seguendo il suo consiglio. Avevo bloccato la porta trascinandoci il letto davanti, per evitare visite non opportune, e sistemato la scrivania esattamente al centro della stanza. Mi sedetti. Avevo posato sul piano graffiato una bacinella metallica, piena sin quasi all'orlo di acqua pulita. Il mio riflesso mi fissava accigliato dalla supeficie del liquido. Non mi sembravo molto convinto. Ho sempre odiato le sedute spiritiche. Solo l'idea di avere a che fare con dei fantasmi mi procura un fastidioso formicolio alla base della nuca. Ma di certo non potevo andare da Radu e chiedergli se per caso conoscesse un metodo sicuro per mettere a nanna le sue adorabili creaturine. Sospirai, e sorreggendomi il viso fra le mani cercai di concentrarmi sull'acqua. Il mio riflesso si fece confuso, sfumando lentamente nelle architetture soffocanti dei sotterranei. Riconobbi la pesante grata metallica che chiudeva il corridoio. Si stava sollevando lentamente.

Ne vidi uscire qualcosa di scuro, gigantesco. Arrancava sulle zampe troppo lunghe, trascinando con sé un fagottino che strillava e si lamentava, riuscivo a capirlo perfino in quel riflesso silenzioso.

Uscirono dal mio campo visivo, e intravidi le prime celle. Manine delicate aggrappate alle sbarre, che si allungavano in cenni imploranti. Faccette smunte, maschi e femmine, nessuno doveva avere più di dieci anni. Le ultime stanze, porte macchiate di sangue e umidità. Di nuovo uscì qualcosa di scuro, portando qualcosa a spalla, ma le sue proporzioni erano umane. Mi voltò subito le spalle, risparmiandomi il suo volto, ma non la triste visione della carcassa sanguinolenta che trasportava.

Era stata un bambino. Ecco perché avevo visto tutti quei piccoli spettri.

A qualcuno, evidentemente, piaceva la carne tenera.

Sentii le mie viscere torcersi per il disgusto, e la nausea mi fece perdere la concentrazione. Tutto sparì in una macchia multicolore. Avrei potuto richiamare l'immagine della belva e cercare di capire chi fosse, ma preferii evitare di indagare ulteriormente. Non potevo certo rinfacciare ad uno dei miei ospiti abitudini che sicuramente non trovava riproverevoli, e soprattutto non volevo ricorrere a fantasmi di bambini. Le brutte esperienze che avevo avuto mi avevano insegnato ad evitarli il più possibile.

Mi costò un certo sforzo tornare a guardare nell'acqua, ma piuttosto che rassegnarmi a chiedere aiuto ad uno spettro bambino, avrei passato tutta la notte a divinare.

Feci scorrere di nuovo le immagini, cercando di risalire la corrente fino ad un'epoca più remota, quando i sotterranei erano una vera prigione. Finalmente.

Due guardie dal volto coperto trascinavano un prigioniero in ceppi. Pesto e sanguinante, continuava ad opporre resistenza con tutte le sue scarse forze, cercando di aggrapparsi ad ogni minimo appiglio offerto dalle pietre del pavimento e delle pareti. Dagli abiti e dai tratti, sembrava un soldato turco dei tempi delle crociate. Riuscirono ad incatenarlo nella cella solo dopo averlo colpito crudelmente allo stomaco, lasciandolo senza fiato, ma prima che i carnefici lo abbandonassero, trovò la forza d'animo sufficiente per sputare loro in faccia. Venne colpito di nuovo, e lo lasciarono da solo, incosciente, nel buio.

Lo vidi deperire lentamente, morire di fame, il suo corpo disfarsi e ridursi ad una massa di ossa grigiastre, tese verso le ciotole che una volta avevano contenuto acqua e cibo, ora solo polvere.

Lasciai svanire l'immagine, e attorno a me i contorni della stanza si fecero labili, e i colori sbiadirono in una nebbia perlacea. Invece di aprire una semplice finestra sulla superficie d'acqua, aveva lasciato che il mio spirito si separasse dal corpo quanto bastava per accedere alla parte più superficiale di quell'oceano tumultuoso chiamato "Piano Astrale" senza correre il rischio di venirne inghiottito.

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