La membrana d'argento

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Il mio limite era una membrana argentea, simile a quella che si vede separare il cielo dal mare se si è immersi nell'acqua, ma che si sviluppava in almeno quattro dimensioni, in un modo che le parole umane non possono rendere. Sapevo cosa aspettarmi ancora prima del Balzo, perché l'Antico che avevo conosciuto me l'aveva descritta, ma lui non si esprimeva con i nostri limiti.

Non dovevo oltrepassarla, o sarei stato risucchiato nelle profondità del Piano Astrale, senza più possibilità di tornare indietro. Da quella prospettiva, tutti gli oggetti che appartenevano al Piano Materiale avevano colori falsati, irreali, erano semplici emanazioni poco solide, se non intangibili. Invece tutto ciò che a volte avevo scorto divinando, strutture fiabesche e paradossali, ombre pseudonaturali, entità fluttuanti, ora erano la mia realtà, anche se obbedivano ad una fisica tutta diversa, se tutti i miei sensi sembravano mescolati e non riuscivo ancora a capire se avessi un corpo o meno. Troppo concentrato nell'evitare di oltrepassare la linea d'argento, e troppo incuriosito e stupito dal quel mondo, persi presto di vista le pallide larve del mondo materiale, attraversando muri e pavimenti senza rendermene conto.

Ma cosa di...?! Ecco, avevo fatto i conti senza l'oste! Un nero ammasso di occhi e di zanne sgocciolanti con un sorriso che mi ricordava un po' il cucciolo del Voivoda mi veniva incontro, decisamente ostile, e io non sapevo come combattere su quel piano! Non pensai oltre: appena prima che mi finisse addosso, mi lasciai ricadere nel Piano Materiale.

Sbattei le ginocchia e i gomiti su un duro pavimento di pietra. Ero ancora intorpidito, e sentii l'impatto senza il dolore. Avevo lo sguardo annebbiato, e non so di preciso quanto restai in ginocchio, nell'attesa di recuperare abbastanza coordinazione da riuscirmi a rialzare, senza sentire nulla e fissando la chiazza giallastra che mi fluttuava di fronte, e che di colpo si aprì.

Mi si avvicinò qualcuno, una macchia pastello di rosa e di gialli, e mentre le mie giunture cominciavano a lamentarsi per la botta, alle mie orecchie arrivarono suoni incomprensibili e disturbati, simili a sbuffi di fumo ed acqua che bolle. Venni aiutato a rialzarmi, mentre la macchia diveniva una figura femminile, coperta solo da un telo annodato poco sopra il seno.

- Non c'era bisogno, ti ho già perdonato. - riuscii a distinguere.

- Cosa?- chiesi, con tutte le probabilità col tono di chi cade dalle nuvole. Del resto, ero appena caduto dal piano Astrale.

- Non sei venuto qui per chiedermi scusa?- mi chiese la Castellana, perplessa.

- Oh, beh...non direi...- replicai, decisamente imbarazzato, oltre che confuso. La chiazza gialla era un paravento, e dietro c'erano il camino e una vasca da bagno. Attorno, altri mobili, e un letto elaborato. Ero finito nella sua camera!

Mi tirò uno schiaffo. Sono quasi sicuro che sia il ceffone più forte che abbia mai ricevuto da una donna. Riuscì a farmi girare la testa di almeno 100 gradi e a tirarmi fuori dagli ultimi strascichi di stordimento, oltre che a lasciarmi un livido che più tardi dovetti far sparire concentrandomi.

Chinai la testa. Avevo quasi le lacrime agli occhi per il dolore. Non le dissi niente, visto che aveva tutte le ragioni per mettermi le mani addosso, e mi affrettai a battere in ritirata. Evitai per poco una spazzola, e un altro oggetto si schiantò sulla porta, mentre me la chiudevo alle spalle. Grazie al cielo, non mi seguì nel corridoio. Sospirai.

Eppure una volta me la cavavo con le femmine...ma poco importava. Finalmente, c'ero riuscito. Mi ero spostato attraverso il Piano Astrale, ed ero ancora tutto intero.

***

Ancora una volta, c'erano solo le maglie ossidate della grata tra me e la familiare oscurità greve di muffa del corridoio. Di nuovo, la stavo sfidando. Ma questa volta, ero convinto di poter vincere. Allungai baldanzoso la mano destra verso la leva, ma mi fermai appena un istante prima di azionarla. Sollevando la grata avrei fatto rumore, e li avrei attirati ancor prima di entrare. Presi un respiro, profondo, e lasciai che il mio corpo affondasse nel Piano Astrale. Per qualche istante più del tollerabile, sperimentai la tremenda sensazione di non avere sensazioni. Poi tornai a galla. Di nuovo la grata e il buio. Ma sembravano avere una consistenza completamente diversa, non più così concreta e minacciosa. Avanzai, ed attraversai le sbarre come se fossero acqua corrente. Le pareti del corridoio risplendevano di una luminescenza iridata, e l'incessante gocciolio mi scuoteva come un cupo rimbombo di tamburi. Uno dei rettili attendeva acquattato sulla parete alla mia destra, una massa scura sui vortici baluginanti della pietra. Gli passai accanto, quasi sfiorandolo. Emanava una radiazione rossastra, calda e tangibile come un liquido, che s'increspò al mio passaggio.

Ma da lui non ebbi alcuna reazione.

Avanti, ancora avanti. Non era scura, ma traslucida come vetro soffiato. Mi veniva incontro, e la sua sagoma acquistò lentamente una certa somiglianza con lo spettro di Hatun. Mi indicò una delle celle. Dopo tutte quelle visioni, non sarebbe certo bastato vedere quella porta distorta e tinta di verde fluorescente, per non riconoscerla come il luogo dove era stato lasciato morire di fame.

Puntai dritto, e passai attraverso le travi rinforzate. Opposero ancor meno resistenza della grata. Hatun mi seguì. Il suo scheletro sparso al suolo spiccava di un irreale candore, fra i resti scuri dei suoi abiti e le catene rugginose.

- Ora ti porto via.- dissi, al fantasma, sorridendo trionfante. O perlomeno, supponendo di averlo fatto. Mi chinai a raccogliere una tibia, ma le mie dita l'attraversarono. Tentai di nuovo, e di colpo, tornai al Piano Materiale. Risentire di nuovo così intensamente della forza di gravità mi fece rimanere stordito per qualche secondo. Nel frattempo, Hatun era sparito, o meglio, non potevo più vederlo, ma le sue ossa erano ancora al loro posto, grigiastre e familiari. Le raccolsi in un sacco di tela, legato ai miei abiti, attento a non dimenticare il minimo frammento. Feci scivolare dentro per ultime le falangi della mano destra, dopo essermi assicurato che fossero tutte, e qualcosa si abbatté di schianto contro la porta della cella. Mi voltai di scatto, serrando i cordoni della sacca. Il Carceriere! Ora che ero tornato materiale, era riuscito ad individuarmi! Cercò di infilare i pugni fra le robuste sbarre dello spioncino, ma erano troppo strette, e quindi tornò ai metodi drastici. Prese la rincorsa. Ad ogni spallata, il legno s'incurvava pericolosamente, e i cardini gemevano. Non avevo tempo di balzare nel piano Astrale. Dovevo trovare un diversivo. Raccolsi una pietra divelta e mi portai accanto alla porta, la schiena contro il muro, i cardini a portata della mia mano destra. Mi concentrai sul ritmo dei suoi colpi. Rincorsa, spallata, indietro. Rincorsa, spallata, indietro. Attesi di sentirlo lanciarsi contro la porta, e feci saltare con un colpo di pietra i cardini, già indeboliti. Non incontrando più resistenza, finì con tutta la porta contro la parete opposta, come avevo previsto. Mi precipitai fuori dalla cella, mentre cercava di rimettersi in piedi, intontito dalla botta.

Non potevo uscire da dove ero entrato, non solo la grata si trovava troppo lontana da me, ma era anche abbassata. Potevo solo sperare ci fosse un'altra uscita.

Una lama passò sibilando accanto al mio orecchio. Non mi voltai indietro.

- Qui, sbrigati!- sentii gridare da una voce familiare. Alla mia destra, la porta di una cella, prima chiusa, si aprii, proprio mentre uno degli Scorridori mi atterrava sulle spalle. Mi gettai dentro, finendo sul pavimento, avvinghiato a quella belva. Sentii a stento lo scatto metallico della porta che si richiudeva, mentre gli artigli portavano via brandelli di vestiti e tessuti fibrosi. Era meno forte di quanto pensassi. Riuscii a metterla abbastanza presto con la schiena a terra, nonostante i colpi che mi arrivavano al viso. - Sta giù!- gridai, afferrandole il muso e sbattendo la sua testa al pavimento. La sentii afflosciarsi sotto di me, ma non per la botta: le avevo catalizzato all'interno abbastanza energia negativa per causare un coma temporaneo. Mi rialzai, pesto e graffiato, e strappai via una manica della camicia, ormai ridotta a poche strisce di tessuto.

- Grazie. - dissi ad Hatun, sincero. Stava fluttuando nei pressi del muro.

- Non c'è di che. Piuttosto sbrigati a tornare sul Piano Astrale, che ci sei quasi.-

Guardai fuori dalla cella, e vidi l'altro Scorridore e il Carceriere, pronti a farmi la festa.

- Ben detto. - risposi, e di nuovo il mio corpo raggiunse la membrana d'argento.

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