Capitolo 7.

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Mi diressi in bagno e mi lavai avidamente e ripetutamente la faccia, come se avessi bisogno di cancellare i tratti del mio volto.
L'acqua fredda sembrava poter raffreddare tutti i miei pensieri.
Con il viso gocciolante, mi osservai attentamente allo specchio. Vedevo un ragazzo libero: ciò che avevo sempre voluto essere. Ma quello era il momento dei ripensamenti e dei dubbi, che ormai non potevo più nascondere.
In cosa mi stavo cacciando?
Cosa mi aveva spinto veramente fino a lì?
Era troppo tardi per tornare indietro?
Domande, che nascevano forse da vile paura o da semplice insicurezza, ma che erano diventate una presenza costante nella mia mente, da quando avevo scoperto quel contenuto sul web.
Era un brano scritto a mano, in un dialetto greco eolico, ma era criptato con un sistema abbreviativo. Il sito mi richiedeva di tradurlo e decifrarlo. E mi apparve un timer che mi forniva ventiquattro ore per risolverlo.
Quel che scoprii non mi sollevò il morale, anzi. Avevo sempre addosso quella strana sensazione che più passava il tempo, più mi addentravo e mi immischiavo in qualcosa di grosso, qualcosa da cui dovevo rimanere fuori ma che avrebbe finito per inghiottirmi, senza lasciarmi via di scampo.
Cosa sarebbe successo se ci avessi provato? In fondo, studiavo lettere, avevo passato anni a tradurre versioni.
E se lo avessi interpretato in maniera errata? Che sarebbe successo?
E se non ce l'avessi fatta fino allo scadere del tempo?
Ma forse l'unica risposta che riuscivo a darmi era una: si, era troppo tardi per tornare indietro ormai.
Ci avrei provato, anche se man mano che i secondi scorrevvano sul timer, sentivo l'ansia prendere il sopravvento, insieme alla paura che qualcosa di spiacevole sarebbe accaduto, se non avessi fatto ciò che mi era stato chiesto.
Non mi restava che darmi da fare e venire a capo da quella strana situazione in qualche modo, cercando più risposte possibili a quella serie infinita di domande che mi assaliva.
Erano le quattro e mezzo del pomeriggio, quando mi trovai per le strade di paese in cerca di qualcosa che mi ispirasse tranquillità per iniziare a lavorare.
Mi incuriosì un negozio dalla vetrina piena di dischi, cd e dvd e libri.
Ci entrai curioso.
-Salve.- dissi entrando ad un signore che aveva appena aperto il negozio.
- Ha bisogno di qualcosa?-
- Vorrei dare un'occhiata se non le dispiace.- risposi gentilmente abbozzando un sorriso di cortesia.
- Ma certo, fa' pure con comodo. Tanto oggi tutti se la prendono con comodo qui... Ho assunto una ragazza, dovrebbe essere il suo primo giorno di lavoro ed è già in ritardo.- si lamentò per conto suo andando nello sgabuzzino dietro il bancone. -ah, giovani d'oggi...- aggiunse da lì dietro.
Ignorando il proprietario, alquanto strambo, diedi un'occhiata a ciò che avevo attorno. Ad attrarre la mia attenzione furono dei vocabolari. Se volevo tradurre quel brano, avevo innanzitutto bisogno di un buon dizionario di greco.
Ne trovai uno e lo sfilai dalla libreria per leggere chi ne avesse curato la redazione, in quel momento sentì l'acchiappasogni appeso alla porta tintinnare. Mi girai.
Era Azzurra. Sì, quello non era il suo nome, ma quello sarebbe rimasto ancora il suo nome, fino a prova contraria.
Mi girai subito di spalle per non osservarla troppo, imprecando fra me e me per la situazione inaspettata.
- C'è nessuno?- domandò con l'aria di una che era arrivata di corsa.
Uscì il proprietario dallo sgabuzzino.
- ah, sei tu.- mormorò poco gentilmente.
Lui iniziò a biasimarla e lei a giustificarsi, fino a quando si giunse ad una conversazione decisamente poco tranquilla.
Mentre pensavo tra me e me se invervenire per calmare le acque o lasciare che per lei non esistessi, entrò nel negozio un ragazzo: camicia blu scuro, pantaloni e mocassini grigi, rayban. Un tipo alto slanciato con capelli scuri abbastanza lunghi, che aveva tutta l'aria di indossare capi firmati dalla testa ai piedi.
Non salutò nemmeno ma rimase in silenzio a comprendere cosa stesse succendendo.
Con una mano nella tasca dei suoi pantaloni costosi e l'altra ad allargare i girocollo del colletto della camicia, si avvicinò ai due.
Mantenni gli occhi fissi sul vocabolario, diedi le spalle, temendo di essere notato troppo, continuando però a tenere le orecchie tese.
-È colpa mia, la perdoni.- irruppe durante la discussione.
Mi girai un attimo per vedere l' espressione di Azzurra, sorpresa almeno quanto il proprietario.
Mi chiesi se lei conoscesse quel ragazzo o meno.
- prego?- chiese il proprietario in cerca di spiegazioni.
- ha fatto ritardo perchè qui vicino ho tamponato la sua auto con la mia porche. Sa' a volte guido distrattamente...- spiegò, dandosi fin troppe arie per i miei gusti. Agitò un braccio, movimento che scoprì il suo rolex al polso.
No, non si conoscevano. Azzurra non aveva nessuna auto e il suo aspetto da post corsa dava piena conferma di ciò.
- porgo alla signorina le mie scuse e, se un uomo di mondo come lei lasciasse finire qui la faccenda, farebbe un grande favore a me, che potrei così sdebitarmi nei confronti della ragazza.- aggiunse con fare carismatico ma allo stesso tempo adulatore.
Il proprietario si placò quasi immediatamente e decise di chiudere un occhio.
Poco dopo uscì dal negozio, lasciando lì Azzura con un "sai cosa devi fare, non hai bisogno di me."
Mi spostai verso un'altra mensola con il mio dizionario in mano, aspettando che si dicessero qualcosa. Me ne stavo lì come uno spettatore silenzioso, senza fiatare o fare rumore sperando di essere una presenza invisibile.
-Grazie mille, non dovevi ma sei arrivato al momento giusto. Non so come ringraziarti.- mormorò lei mettendosi dall'altra parte del bancone.
-ah, figurati. Ti ho visto in difficoltà e mi piace dare una mano quando posso.- rispose lui, con un sorriso che voleva apparire affascinante ma a me sembrava solo idiota. Lei rispose al suo sorriso e ci fu qualche attimo imbarazzante di silenzio fra i due, durante il quale lui approfittò per togliersi gli occhiali da sole e appenderli alla scollatura della camicia.
-meritavi una possibilità e immagino tu non abbia avuto una giornata facile per far ritardo il primo giorno di lavoro.- aggiunse poco dopo, appoggiando due gomiti al bancone.
Per sapere che era il suo primo giorno doveva frequentare spesso il negozio.
- in realtà è successo di tutto. Mi sono appena trasferita qui a Monopoli e stamattina mi hanno consegnato le chiavi dell'appartamento, che si trova a qualche isolato da qui. Ero contenta di averlo trovato, con vista mare a una tariffa niente male, ma quell'idiota del proprietario mi ha dato le chiavi sbagliate e mi sono ritrovata nell'appartamento sbagliato, occupato da un mucchio di ragazzi in preda ad ormoni impazziti e non aggiungo altro... È stato un cattivo inizio.- spiegò freneticamente, per poi sospirare per l'esasperazione mentre il tipo di fronte prese a ridere di gusto, fin troppo, coprendosi gli occhi con una mano.
-Comunque, non mi sono neanche presentata. Che sbadata.- aggiunse poco dopo. - Amelia Loretti, e tu sei?- pronunciò allungando la mano.
Ecco la prova. Era Amelia.
- il figlio dell'idiota che ti ha dato le chiavi sbagliate.- rispose tranquillo e sorridente stringendole la mano.
- nome che di solito i tuoi amici abbreviano in...?- ribattè in tutta risposta lei.
-Massimo.- rispose ridendo e apprezzando l'umorismo. - bella e simpatica a quanto pare...- aggiunse facendo il cascamorto.
- l'ho fatto per sdrammatizzare ma perdonami io non...- iniziò a dire lei ma venne bloccata da lui.
- ma figurati, non devi affatto scusarti. Conosco bene mio padre ormai.- affermò lui.
Decisi che era tempo di uscire da quel negozio, non sarei potuto rimanere più a lungo.
Acquistai il vocabolario, fingendo di parlare a telefono per estraniarmi dal contesto.
Pagai e poil approfittando della loro distrazione, ebbi modo di uscire inosservato. Ignorai tutte le buone norme di educazione, che prevedevano un minimo saluto, e mi diressi al mio appartamento, fumando una sigaretta.
Durante il tragitto mi misi a pensare.
Il suo nome era davvero Amelia.
Stare lì mi era servito dopotutto, finalmente potevo dire di conoscere con certezza almeno il suo nome. E devo ammettere che per quanto preferissi di gran lunga il nome Azzurra anche Amelia non era male, per lo meno era più indicato di Azzurra dal momento che i suoi occhi ora non erano più azzurri.
E ora c'era Massimo, un idiota cascamorto che, venuto così dal nulla, stava provando a rubarmi ciò che avevo inseguito a costo di abbandonare tutto.
Daltronde cosa potevo aspettarmi? Io me ne stavo lì a cercare di capire se stessi inseguendo quella ragazza o ciò che possedeva, nel frattempo evitavo in tutti i modi che si accorgesse di me.
No, non ero timido, codardo, vigliacco o roba simile, semplicemente ero cosciente della posta in gioco e non potevo permettermi di commettere nemmeno un minimo errore; soprattutto se commesso a causa di una cosa così effimera, imprevedibile, incontrollabile e irrazionale come un sentimento. Rendermi volubile era l'ultima cosa che mi serviva al momento.
Con questi pensieri nella mente trascorsi il pomeriggio e parte della mia serata in camera, davanti ad una scrivania con un vocabolario, un foglio, una matita e quello strano brano. Una situazione parecchio familiare a chi si è dedicato agli studi classici.
Il brano. Erano soli cinque righi, scritti in greco eolico, con una calligrafia stilografata e utilizzando un sistema abbreviativo che fortunatamente conoscevo.
Il maestro Greco tempo fa mi fornì qualche lezione di stenografia. Era una materia molto affascinante e i sistemi abbreviativi esistenti erano i più vari.
Ebbi l'occasione di impararne solo pochi e per fortuna tra questi c'era quello del brano che avevo.
Ma in questa storia c'era sempre qualcosa di strano che non riuscivo a spiegarmi. Chiusi il vocabolario, stanco dopo qualche ora.
A cosa mi avrebbe condotto questa traduzione? Cosa aveva a che fare con Amelia?
Perchè lasciare degli indizi in manoscritti introvabili scambiati in una libreria e trasferirsi da sola altrove?
E tutto diventava ancora più insolito se si considerava il cambiamento della ragazza e il fatto che era partita solo dopo aver scambiato il libro.
Sarebbe partita comunque se non avesse scambiato quel manoscritto?
Poteva aver già organizzato tutto da settimane e questa dello scambio poteva essere solo una coincidenza... Oppure no.
Rilessi un'ultima volta la traduzione alla quale avevo lavorato: non mi sentivo soddisfatto. Non riuscivo a comprenderne il messaggio.
Mi diressi sul balcone della mia camera e mi affacciai ammirando la bellezza del mare di notte.
Tutto taceva.
L'acqua calma del mare sembrava inchiostro da intingere con la pelle, e il sottile, quasi impercettibile, suono delle onde sugli scogli e sulla spiaggia sembrava intonare una melodiosa ninna nanna, che avrebbe calmato qualunque tempesta nell'anima o anima in tempesta.
Decisi di voler andare a vedere più da vicino quello spettacolo, perciò tramite una seconda uscita del b&b che dava sul mare raggiunsi la riva.
L'odore di salsedine inebriava l'aria mentre da lontano, da qualche locale, proveniva della musica.
Iniziai a camminare sulla spiaggia, calciando sassi e lanciandone con le mani alcuni in acqua.
Pensavo e ripensavo a quelle parole tradotte che si susseguivano senza interruzione nella mia mente, infinite volte. Non sembravano darmi pace.
Chi aveva scritto questo messaggio? A chi era rivolto e perchè? Cosa c'entravo io?
Pensai ad Amelia, cercando di ipotizzare mittente e destinatario del messaggio, mi chiesi lei quale fosse dei due.
Poco dopo, non saprei dire cosa mi spinse a farlo, sfilai il cellulare dalla mia tasca. Visualizzai il timer: "tempo rimanente 19 ore 53 minuti e 47 secondi". Poi i secondi divennero 46, 45, 44.
Quando scattò l'altro minuto decisi di farlo.
Digitai quella traduzione, ormai impressa nella mia memoria:
"Avevo giá previsto la tua voglia di vendetta. Mi stai cercando e non mi troverai, ma chi ti cerca si nasconde. Arriverà: si sta nascondendo. Non sarà lui a trovare te, sarai tu a cercare lui ma non lo saprai."
Premetti invio.
In quello stesso preciso istante realizzai davvero che, ora, in tutta quell'assurda storia, c'entravo anch'io. Adesso era davvero troppo tardi per tornare indietro.

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