•capitolo uno•

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Mi lasciai cadere sul quel maledettissimo materassino di gomma e chiusi gli occhi. Con un soffio di sollievo constatai che mi mancava una sola serie di addominali e poi sarei potuta tornare a casa. Non vedevo l'ora di fare una bella doccia rilassante, di mettere il pigiama e di immergermi di nuovo nel mio paradiso estivo: la lettura. Riposizionai le mani dietro la testa e ricominciai. Uno... Due... Tre... continuai per quella che mi parve un'eternità ma che in realtà erano solo pochi attimi. Arrivò il numero quindici e scattai in piedi. Raccolsi l'asciugamano e il cellulare e mi recai negli spogliatoi, misi tutto nella borsa e tornai nella sala macchine per salutare il mio allenatore: Antonio. Era un uomo molto simpatico ma solo quel nome mi bastava per odiarlo. Tuttavia non ci riuscivo: non mi sembrava giusto scaraventare su di lui tutta la rabbia che quelle sette lettere mi suscitavano. Probabilmente lui era in grado di capirmi, probabilmente aveva passato le stesse torture che stavo passando anche io, probabilmente a lui non fregava nulla. Scacciai dalla mente questi tristi pensieri e andai a cercare il mio allenatore. Dopo pochi minuti lo trovai nella sala pesi, mi vide e si avvicinò.
<Te ne vai?> mi chiese.
<Sì.> risposi.
<Ok, ci vediamo. Ciao Ilà> e se ne andò.
Mi voltai e uscii dalla palestra. Fuori vidi la Ford Fiesta grigia di mio fratello che mi aspettava. Entrai, lo salutai e accesi la radio. Subito le note di Hotel California di Eagles risuonarono nell'abitacolo. Sorrisi soddisfatta e cominciai ad agitarmi sul sedile, mentre mio fratello mi guardava divertito scuotendo la testa. Ballare era l'unica cosa che mi impediva di pensare. Il ballo, per me, non era solo uno sport, era una passione. Dopo averlo praticato per circa otto anni cominciava ad essere il mio futuro che si era infranto in un secondo come l'ossa della mia caviglia destra.

*Flashback*

Eravamo nell'atrio dell'istituto e stavamo giocando a pallavolo.
Mi arrivò la palla e senza pensarci mi diedi una spinta verso l'alto e la colpii facendola rimbalzare sul campo avversario e facendo guadagnare punti alla mia squadra. Mentre tornavo con i piedi a terra, però, qualcosa andò storto. Qualcuno aveva preso il mio posto ed io, per evitare di cadergli addosso, cercai di deviare la mia traiettoria di arrivo ma non feci in tempo. Atterrai con la caviglia piegata verso l'interno ed un sonoro CRAC fu seguito dalle mie urla di dolore. Tutto ciò che avvenne dopo è solo un ricordo sfuocato. Solo una cosa è ancora nitida nella mia memoria: il responso dell'ortopedico.
<La ragazza ha contratto una frattura della caviglia> disse <guarirà, ma non potrà più ballare>. Quelle parole furono come una doccia fredda; e continuano ad essere l'incubo che mi sveglia di soprassalto alle tre di notte.

*Fine flashback*

Cacciai indietro le lacrime. Negli anni che seguirono l'incidente, nessuno mi aveva visto soffrire per questo divieto. Sapevo che nel caso avessi voluto sfogarmi, le mie lacrime sarebbero state più che giustificate; ma questo non mi impediva di pensare che piangere di fronte a qualcuno mi avrebbe reso debole ai suoi occhi. E io non volevo sembrare debole. Sapevo di esserlo ma non volevo che altri, al di fuori di me, venissero a conoscenza di questa mia fragilità.
Sentii il motore dell'auto spegnersi. Scesi e mi recai di corsa in camera per prendere tutto il necessario per immergermi in una bella vasca d'acqua calda. Aprii la porta e la prima cosa che vidi fu l'incarnazione di tutto ciò che non avrei più voluto vedere in tutta la mia vita.

It's My LifeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora