Una folata di aria fredda mi colpì il viso, facendomi rabbrividire. Buttai la cicca della sigaretta giù dal tetto, non badando alle conseguenze, poi abbracciai le gambe strette al petto. Calum, seduto al mio fianco, stava ancora fumando; una nuvola lo avvolse quando buttò fuori il fumo. La luna accarezzava gentilmente il suo viso, illuminandolo e permettendomi di guardarlo meglio. Pensai che, in quel momento, fosse davvero bello. Ma non bello come lo può essere un qualsiasi ragazzo incontrato per caso sull'autobus, no, era bello come il sole all'imbrunire sul mare, come qualcosa da ammirare pezzo per pezzo, momento per momento.
«A che pensi?» mi chiese buttando il mozzicone come avevo fatto io poco prima. «A niente» mentii, non potendo rivelargli i miei pensieri su di lui. Lui annuì poco convinto ma senza chiedere altro. «Da quanto sei qui?» mi domandò. «Otto mesi» risposi. «Come ci sei finita?» chiese; per la prima volta il suo tono era davvero interessato. «Droga». Lo sentii ridere, così lo guardai offesa. «Voglio la storia, bionda». «Non c'è una storia». «Tutti hanno una storia». Per la prima volta in tutta la serata i nostri occhi si incontrarono. «Diciamo che non era un bel periodo, per cui mi ero ritrovata davanti ad un bivio e non sapevo che strada prendere: la buona o la cattiva? E proprio allora è arrivata una persona che mi ha condotto verso quella cattiva, facendola passare per la buona ai miei occhi. Ho percorso lentamente questa via, partendo dalle sigarette e da qualche birra qua e là. Poi le canne, ma ogni tanto. E, dopo che quella stessa persona mi ha fatto tanto male, ho iniziato a drogarmi seriamente. Per mia fortuna non è durato molto: una sera sono tornata a casa completamente fatta e impazzita, piangevo e urlavo e i miei genitori si sono spaventati. Come biasimarli. Grazie a loro la situazione non è degenerata» spiegai, evitando i particolari. «Chi era questa persona e cosa ti ha fatto?» domandò, mantenendo lo sguardo fisso nel mio. «Se ho sorvolato su quel tipo di informazioni ci sarà un motivo, no?» dissi retorica. Lui scosse la testa sorridendo. «Che c'è?» chiesi, sorridendo a mia volta. «Non sembri il tipo di ragazza che fa qualcosa solo per piacere a qualcuno» spiegò. «Già» annuii, d'accordo con Calum. «Ora tocca a te, Cal» risi leggermente, fermandomi subito quando notai la sua espressione accigliata. «Come mi hai chiamato?» sibilò. «Cal. Scusa, non dovevo?» chiesi cauta. Stavo bene in quel momento, a parlare così con lui, e non avevo voglia di rovinarlo per uno stupido diminutivo. «Non farlo più» ordinò semplicemente, questa volta esausto, abbandonando il precedente tono arrabbiato. «Ok. Bene. Allora questa storia?» domandai con leggerezza. «Cosa vuoi sapere esattamente?». La sua voce era tornata tranquilla e questo mi sollevò. «Non lo so. Tutto, credo» feci spallucce. «Sono stato un anno in carcere e credo che tu sappia per quale motivo ci sono finito» mi guardò. «Avrei dovuto scontare una pena maggiore, ma al processo sono stato dichiarato incapace di intendere e di volere perché sotto effetto di droghe durante il crimine, quindi mi hanno mandato qui» finì la breve storia, accendendo maggiormente la curiosità che già bruciava ardentemente dentro di me. «Non so che hai fatto» mentii, sparando che me lo raccontasse lui stesso. «È ovvio che lo sai, ma se ci tieni tanto a saperlo te lo dirò» rise, ma potei percepire un velo di tristezza nella sua voce. Gli feci cenno con la testa di parlare. «Ho quasi ammazzato uno perché ha fatto una cosa che non avrebbe dovuto fare». Sorvolai su cosa avesse fatto quella persona capendo che, come me, non si sentiva pronto ad affrontare quell'argomento. «Te ne penti?» domandai appoggiando il mento sulle ginocchia e guardandolo intensamente. «Mi pento solo di non aver picchiato abbastanza forte quel bastardo da mandarlo all'inferno» grugnì. «E mi pento di non averlo capito prima» aggiunse qualche secondo dopo sussurrando, con gli occhi pieni di tristezza. Capii che stava parlando più a sé stesso che a me, come se stesse pensando ad alta voce senza rendersi conto di aver parlato veramente. Non gli chiesi a cosa si stesse riferendo perché sembrava stanco di quei ricordi, anche se dentro di me morivo dalla voglia di sapere cosa fosse successo. Calum borbottò qualcosa che non riuscii a capire. «Cosa?». Si girò verso di me guardandomi con occhi spalancati, come se si fosse dimenticato della mia presenza. Si ricompose quasi subito, per poi ignorare la mia domanda e sdraiarsi sul cemento duro. «Neanche Ashton sa che è successo» diedi voce ai miei pensieri, stanca di quel silenzio che si stava facendo troppo opprimente. Capii che Calum mi stava guardando, così continuai. «E io non so che è successo a lui. O almeno non i particolari». «Che intendi?» mi domandò il moro che aveva ancora l'attenzione su di me. «Sai, io e lui siamo arrivati qui nello stesso periodo; una notte dei primi mesi lui ha avuto un crollo emotivo: fino a quel momento l'avevo sempre visto spensierato e felice e quando iniziò a piangere ed urlare non sapevo che fare. Cercai di chiamare qualcuno per chiedere aiuto ma lui mi supplicò di non farlo, perché sapeva che gli avrebbero dato dei calmati e che lo avrebbero portato in isolamento. Così gli dissi che di me si poteva fidare e che parlarne lo avrebbe aiutato, e ha ceduto. Non immaginavo che tutto quel dolore si potesse trovare dentro ad un ragazzo così gioioso e pieno di vita» una lacrima solitaria scivolò lungo il mio viso. «Da quella notte io sono diventata la sua ancora di salvezza e lui la mia, anche se non se ne rende conto. E tra meno di due settimane lui uscirà da qui. Allora io che farò?» lo guardai disperata, mentre un'unica lacrima era sfociata in un pianto isterico. Calum mi guardò apprensivo e mi lasciò sfogare senza dire o fare niente e io gliene fui grata.
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5 wounds//Calum Hood
FanfictionLe porte della mensa si aprirono bruscamente e un ragazzo vi entrò dentro, scortato da due guardie armate che lo tenevano per i polsi già ammanettati. Tutti, compresa me, ci girammo nella sua direzione, spinti dalla curiosità. Quello che mi stupì fu...