5. I don't need to be helped

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«Dottoressa Finn, mi scusi per la brusca interruzione, ma questa furbetta qua pensava bene di rimanere chiusa in camera invece di partecipare al suo gruppo di sostegno» mi indicò l'infermiere strattonandomi e buttandomi- letteralmente- su una sedia. «Non si preoccupi, la ringrazio» disse la dottoressa sorridendogli e congedandolo con lo sguardo. Io mi massaggiai i polsi e imprecai sottovoce, con lo sguardo curioso di tutti puntato addosso. «Ben tornata Mabel» sospirò la dottoressa Finn. La ignorai e con lo sguardo cercai Luke, trovandolo subito dopo. Lui mi guardava tutto sorridente e mi salutò con un cenno del capo, saluto che ricambiai immediatamente. «Prima di continuare a far parlare Joshua, vorrei introdurre alla signorina Clarke l'argomento di oggi» disse la dottoressa. «Mabel, se dico paura, cosa ti viene in mente?». Feci per pensarci e poi risposi. «Mi viene in mente la paura» sorrisi. Lei scosse la testa. «Era un modo indiretto per chiederti quale fosse la tua paura». La guardai apatica. «Ad esempio, Joshua cosa stavi dicendo?» chiese rivolgendosi ad un ragazzo paffuto seduto accanto a lei. «Io ho paura dei ragni» disse lui semplicemente. «Cosa ti fa paura dei ragni?». «Tutto. Le zampette, le ragnatele, gli occhi, l'idea che mi possano saltare addosso. Tutto» rispose venendo scosso da brividi e facendo una faccia spaventata. «E cosa farai per affrontare la tua paura?» domandò la dottoressa con tono interessato. Pronunciò quelle parole quasi a memoria, come se le avesse dette centinaia e centinaia di volte. Sbuffai annoiata. «La prossima volta che ne vedrò uno non urlerò come un dissennato chiamando la mamma ma prenderò una scarpa e gliela lancerò contro» rispose sicuro. Lei annuì soddisfatta. «Signorina Finn, posso farle una domanda?» chiesi io alzando la mano. «Certo Mabel, puoi chiedermi tutto quello che vuoi» mi disse, felice che volessi partecipare. «Come può parlare delle nostre stupide paure aiutarci a smettere di fare uso di droghe?» domandai. La dottoressa mi guardò sorpresa, così come tutti gli altri presenti. Luke, invece, mi guardò divertito. «È un modo per instaurare un rapporto di fiducia con me, un modo per insegnarvi ad aprirvi, così che quando dovrete parlare di quei problemi non avrete vergogna o paura» rispose la signorina Finn dopo essersi ricomposta. «Beh, io mi rifiuto di fare questi discorsi idioti. I miei genitori mi hanno chiusa qui dentro per fare in modo che io non senta più il bisogno di assumere droghe, non per farmi parlare delle mie paure o di cosa significa per me essere felici!» urlai, arrabbiata. «Mabel, per favore, non urlare» ordinò dolcemente lei, facendomi innervosire ancora di più. «Non posso non urlare!» gridai più forte. Due guardie entrarono immediatamente nella stanza, già con una dose di calmante in mano. La dottoressa li fermò con un gesto della mano. «Mabel, capisco la tua rabbia repressa, ma fare così non ti aiuterà più di questi gruppi di sostegno. Ho bisogno che tu ti fida di me e che tu faccia cadere questo muro di odio che alzi ogni qualvolta qualcuno cerca di aiutarti» mi guardò comprensiva. «Non ho bisogno di essere aiutata» risposi fredda. «Voglio che tu venga da me ogni mercoledì mattina per una seduta privata» mi disse scrivendo qualcosa su un foglietto e porgendomelo subito dopo. «Portatela via» ordinò poi ai due uomini, non facendomi neanche parlare. Luke mi guardò triste ma io lo ignorai; in quel momento non riuscivo a non essere incazzata col mondo.

«Dove sei stata oggi?» mi chiese Ashton quando mi appoggiai alla panchina accanto a lui. Quel giorno il sole era alto nel cielo e lo riscaldava, per questo quasi tutti erano usciti in cortile per godersi quel piacevole calore. «Mi hanno anestetizzato e ho dormito per quasi tutto il pomeriggio» riposi facendo spallucce. Ashton mi guardò preoccupato, chiedendo silenziosamente una spiegazione. «Ho dato di matto al gruppo di sostegno a cui, tra l'altro, mi hanno trascinato con la forza» spiegai. «Perché hai dato di matto?». «Perché non è normale che a quei cazzo di gruppi ci fanno parlare di paure e felicità quando dovrebbero servirci a disintossicarci!» dissi, cercando di non alzare la voce. Ashton mi guardò serio per qualche secondo e poi scoppiò a ridere. «Cosa c'è?» chiesi spazientita. «Sei così carina quando ti arrabbi» disse sorridendo e pizzicandomi le guance. «Sarò ancora così carina dopo che ti avrò tirato un pugno sul naso?» domandai, sorridendo altrettanto. Ashton tornò serio e si grattò la nuca. «Meglio non saperlo» ammise dopo. Alzai il pollice in segno di approvazione. «Tu che hai fatto invece?» gli chiesi, guardando due ragazzi passeggiare mano nella mano. «Gruppo di sostegno anche io e poi ho lavorato in cucina» rispose.
«Ragazzi, voi non potete capire quanto io sia stanco! Potrei persino addormentarmi in piedi!» esclamò Michael sedendosi accanto a me. «Ciao Mikey, che hai fatto?» lo salutai. «Mi hanno beccato mentre cercavo di rubare una sigaretta all'infermiera di turno e per punizione ho dovuto pulire i bagni. Tutti i bagni» spiegò marcando la parola "tutti". Cercai di rimanere seria ma non riuscii a trattenermi, scoppiando così in una fragorosa risata. «Sei quasi più sfigato di me» gli dissi asciugandomi le lacrime. Ad un tratto vidi passare Luke che, molto probabilmente, stava rientrando nella struttura. «Hey Luke!» lo chiamai, sperando che mi sentisse. Urlai il suo nome una seconda volta ma era troppo lontano, così gli corsi dietro. «Luke!» gridai quando fui più vicina. Finalmente si fermò e si girò, notandomi. Quando gli fui davanti mi piegai e cercai di riprendere fiato. «Tutto ok?» mi chiese mentre io continuavo a respirare affannosamente. «Secondo te? Ti sono corsa dietro da lì» dissi indicando la panchina. Luke mi guardò storto. «Mabel, ti rendi conto che hai fatto si e no 4 metri?» chiese retorico. «Ognuno ha i propri limiti» risposi dopo aver ripreso fiato. «Perché mi cercavi?». «Volevo chiederti se ti andava di unirti a noi» feci spallucce. Lui diede un'occhiata ai ragazzi che ci guardavano curiosi, poi alla vista di qualcosa arrossì e parlò. «Mi piacerebbe ma non posso, devo lavorare». «Oh, ok. Non fa niente» dissi ignorando non del tutto il rossore improvviso sulle sue guance per poi salutarlo e andarmene. Raggiunsi Ashton e Michael ai quali nel frattempo si era aggregata Octavia. «Chi era?» domandò Ashton. «Un ragazzo del mio gruppo di sostegno». «Forse dovremmo rientrare» disse la ragazza guardando l'orologio posto all'entrata dell'edificio. «Perché? Il coprifuoco è tra un'ora» chiesi. «Octavia ha ragione, tra dieci minuti iniziano le visite» spiegò Michael. A quelle parole il mio cuore saltò. «Davvero?!» domandai io incredula, prolungando la lettera "a". I tre ragazzi annuirono. «Dobbiamo muoverci allora!» esclamai gioiosa iniziando a correre e a saltellare.

Guardai i ragazzi entrare e uscire dalla stanza degli incontri mentre aspettavo che chiamassero il mio nome; era passata mezz'ora dall'inizio delle visite e rimanevano solo venticinque minuti prima che il tempo scadesse, ma comunque cercavo di non abbattermi se ancora non era arrivato il mio turno.
La lancetta dell'orologio girava sempre più veloce e il tempo passava sempre più in fretta; gli inservienti chiamavano nomi su nomi senza mai pronunciare il mio, facendo spegnere ogni briciola di speranza che mi era rimasta in corpo.
«Non è venuto nessuno eh?» mi chiese una voce. Mi voltai, trovando Occhi a mandorla pochi centimetri dietro di me. «Non è ancora finito il tempo, arriveranno» borbottai incrociando le braccia al petto e tornando a guardare l'orologio. Dieci minuti, mancavano solo dieci minuti. Lui rise, beccandosi così una mia occhiataccia. «Non capisco se stai cercando di convincere me o te stessa» disse affiancandosi a me. «E per te è venuto qualcuno?» gli chiesi, sapendo già quale fosse la risposta. «No, ma d'altronde io me l'aspettavo» ammise guardandomi negli occhi. Sospirai con la gioia che pian piano spariva, lasciando spazio a tristezza e rabbia. Alzai gli occhi al cielo e cacciai le lacrime che minacciavano di uscire. "Non ora" pensai. Mi ripresi e mi avvicinai alla guardia che stava facendo uscire tutti i ragazzi dalla stanza. «Mi scusi, credo ci sia stato un errore: non mi ha chiamato!» dissi. «Forse perché non è venuto nessuno?». «È impossibile. Potrebbe ricontrollare? Cerchi Clarke» chiesi sporgendomi per guardare la cartella che teneva in mano. «Nessun errore» mi guardò comprensivo per poi andarsene.
Mi accasciai a terra e appoggiai la testa al muro; gli occhi chiusi per non far uscire le lacrime che mi bruciavano in gola. Sentii Occhi a mandorla sedersi accanto a me. «Mi dispiace biondina» disse, sforzandosi di apparire veramente dispiaciuto. Lo guardai col sopracciglio alzato. «Non fingere Occhi a mandorla, so che non ti importa» gli dissi passandomi una mano tra i capelli e alzando le spalle. «Già» ammise semplicemente.
Le nostre spalle si sfioravano così mi scostai leggermente in modo da evitare quel contatto. «Vuoi venire in un posto?» chiesi dopo vari minuti. «Dove?». «Sì o no? Perché altrimenti ci vado da sola» dissi alzandomi senza aspettare una sua risposta e avviandomi verso le scale antincendio, non prima di aver controllato che non ci fosse nessuno. Lui mi seguì senza mai proferire parola. Arrivai in cima alla scala e forzai la porta che si aprì dopo qualche tentativo. Uscimmo sul tetto e un'arietta primaverile ci accolse, accompagnando il sole che lentamente spariva dietro i palazzi. «Voilà» esclamai, godendomi quel panorama. Occhi a mandorla mi affiancò con un'espressione sbalordita sul volto. «Wow» sussurrò lui. «Spettacolare vero?» gli chiesi. Ricevetti un cenno d'assenso col capo come risposta. «E questo non è niente-» sospirai «-Dovresti venirci di notte, quando ad illuminare il paesaggio ci sono solo la luna e le stelle e l'unico suono udibile è il tuo respiro». Il ragazzo mi guardò curioso. «Ci vieni spesso?» mi domandò qualche secondo dopo. «Quasi ogni notte». I miei occhi erano ancora puntati sul cielo che aveva preso diverse sfumature. E sul sole, che calava piano, quasi riluttante a dover lasciare spazio alla luna.
Con la coda dell'occhio vidi il ragazzo sedersi sul muretto con le gambe a penzoloni nel vuoto. Non lo imitai, preferendo sedermi a terra con la schiena appoggiata allo stesso muro sul quale era seduto lui. «Perché non ti siedi qua?» chiese divertito, indicando lo spazio accanto a lui. «Mi fa paura». «Cosa?». «L'altezza. Il vuoto» ammisi.
«Una volta ho letto che l'acrofobia nasconde la paura di lasciarsi andare e il bisogno di controllo». «Che stronzata» risposi in tono amaro. «Può darsi» alzò le spalle per poi guardami. «Ma tu, esattamente, come ti chiami?» gli chiesi, rendendomi conto di non essere ancora a conoscenza del suo nome. Il ragazzo rise di gusto, portandosi le mani sulla pancia e chiudendo gli occhi, attorno ai quali si formarono delle rughette. «Perché ridi?» domandai offesa. «Perché ci tieni tanto a conoscermi?» rispose lui con un'altra domanda. «Perché so che non sei quello che gli altri dicono che tu sia e che tu vuoi far credere di essere». «Cioè?». «Cattivo». «È questo che dicono? Che sono cattivo?». «Non solo». Occhi a mandorla scese dal muretto e si sedette vicino a me, non perdendo però il contatto visivo con me. «E tu cosa credi che io sia?». «Un ragazzo ferito, distrutto» sussurrai. Una luce si accese nei suoi occhi spegnendosi subito dopo. «E tu cosa sei?». Lo guardai per qualche secondo. «Una ragazza ferita, distrutta».



CEAOOOOOO
Come staaaate? Io non male, ma potrebbe andare meglio
Mi dispiace che questa storia sia poco seguita, ma io non demordo e continuo a scrivere perché mi ci voglio impegnare veramente e non lascerò che niente mi ostacoli!! (What a discorso commovente)
Amo la conversazione tra Mabel e Occhi a mandorla UAU
Detto questo, spero di vedere qualche visualizzazione, like e commento in più.
Un beso a todos, al prossimo capitolo!! ;)

5 wounds//Calum Hood Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora