Mezzogiorno. I raggi ultravioletti del Sole illuminavano metà faccia di quel mondo fatto di cemento e alberi e fiori di plastica. La luce veniva parzialmente filtrata dall'aria satura di polvere e smog che, immobile e soffocante, formava una cappa sulla metropoli triste e grigia e si posava sui palazzi in rovina.
In uno degli appartamenti di quei palazzi ancora in piedi, Lux era chino su un corpo di sembianze femminili steso sul suo tavolo da laboratorio. Un corpo non di carne, pelle e sangue ma di metallo, cavi e collegamenti elettrici: era un robot, con lo sportello del petto aperto, dentro il quale si intravedeva un miscuglio variopinto di organi di plastica e fili elettrici. Si udiva solo il trafficare di Lux, impegnato a lavorare su quel robot, a spezzare quel silenzio innaturale che avvolgeva il palazzo, così come l'intera città.
Nessuna risata spensierata dei bambini, nessun vociare dei ragazzi, nessun chiacchiericcio, nessun amichevole scambio di battute, nessun litigio. Un tempo c'erano stati. Affacciandosi alla finestra del suo appartamento, un tempo Lux avrebbe potuto vedere i bambini che correvano per le strade -ora vuote, guardati da lontano dai genitori. I panni colorati stesi sui balconi -ora vuoti- dei palazzi, ad asciugare al Sole. Ragazzi di tutte le età riuniti a gruppi passeggiare sui marciapiedi-ora vuoti, mentre guardavano le vetrine dei negozi. Più in là, si ricordava Lux, una nonna, mentre regalava qualche briciola di pane secco ai piccioni, si sedeva sotto al portico del suo palazzo, su una panchina -ora vuota.
Lux si ricordava benissimo anche il giorno in cui tutto ciò era sparito, cancellato, distrutto. Era cominciato tutto con una dichiarazione di guerra di una superpotenza verso l'altra superpotenza. C'era voluto poco perché anche altri Stati si unissero alle due fazioni nemiche ed era iniziata la Terza Guerra Mondiale.
Lux non ricordava quanto fosse durata - o forse non era mai finita e qualcuno, nel mondo, stava ancora combattendo - ma sapeva che aveva cancellato la vita nella sua città e in quelle nei dintorni.
Quello che invece Lux si ricordava benissimo, era l'accordo che avevano sancito i due nemici: in guerra niente bombe atomiche - fino ad allora troppi erano stati gli edifici distrutti, soprattutto quelli antichi e patrimonio dell'Umanità (che Umanità, poi?, aveva pesato Lux) - ma solamente bombe al neutrone, che uccidevano soltanto gli esseri viventi e fortunatamente non toccavano alcuna costruzione, lasciandole intatte. Deserte, ma intatte.
Da allora, intere città erano state colpite, svuotandosi in un colpo solo. Un momento prima c'era vita, rumore, caos, poi un'accecante luce bianca, alla fine morte, calma, silenzio. Lux sentiva quel silenzio dal giorno dell'attacco alla sua città.
Quanto era passato da allora? Settimane, mesi, anni? Quanto? Lux non sapeva dirlo. Ma sapeva che da quel giorno si sentiva solo. Terribilmente solo. Aveva cercato sopravvissuti, vagando per la città, ma non ne aveva trovati. Aveva provato anche nelle città più vicine, pur sapendo che erano state attaccate prima della sua, ormai da tempo. Aveva trovato il nulla e la sua flebile speranza si era spezzata. Da allora i suoi compagni -insopportabili- erano stati il silenzio e la solitudine.
Poi, finalmente, un giorno, trovando una scheda di memoria appoggiata sulla scrivania dell'appartamento che si trovava sopra al suo, era scattato un meccanismo nella sua mente: se non c'erano sopravvissuti, se li sarebbe potuti costruire da sé, no? Finalmente, quando avrebbe parlato, qualcuno avrebbe chiacchierato insieme a lui. Lux non avrebbe più dovuto aspettarsi la risposta muta che gli rifilava ogni volta il muro alle sue domande e ai suoi tentativi di conversare. Aveva iniziato così a costruire il robot, che adesso si trovava disteso sul tavolo del suo laboratorio.
Lux sorrise. Mancava solo un ultimo pezzo, la batteria all'uranio, e lui non sarebbe stato mai più solo.
Spostò lo sguardo dal corpo del robot alla cassetta dove teneva i suoi strumenti. Non la vide. Perplesso, si avvicinò e guardò più attentamente, rovistando dentro. Niente. Era sicuro di averla messa lì dentro.
Si guardò intorno, nella stanza, sperando di trovarla. Non era sul ripiano, non era sul banco da lavoro, non era sugli scaffali, non era sul tavolo dove era distesa lei.
Cercò ancora tra le sue attrezzature. Non la trovò. Dov'era? Dove poteva essere finita? Dove? Dove? Forse non l'aveva portata nel laboratorio.
Uscì da lì e si ritrovò nel soggiorno. Dopo una veloce occhiata alla stanza, camminò velocemente, calpestando l'enorme tappeto sfilacciato e logoro che ricopriva il pavimento, verso l'unico mobile presente nella stanza, il divano. Forse si era appoggiato lì ed era caduta, scivolando fuori dalla custodia. Sollevò il telo impolverato che copriva il divano. Niente. Afferrò i cuscini rovinati e li buttò dietro di lui. Disfece il divano, tolse le imbottiture sporche, le buttò a terra senza curarsene.
Dov'era? Dov'era? Si raddrizzò e ritornò correndo nel laboratorio. Forse non aveva controllato bene. Doveva per forza trovarsi lì. Frugò in ogni angolo, scorreva con lo sguardo ogni centimetro, millimetro di quello spazio. Niente. Niente. Niente! Perché non la trovava? Dov'era? Si bloccò all'improvviso. Forse non era indispensabile la batteria all'uranio.
La sua attenzione venne catturata da un oggetto appoggiato su uno dei scaffali. Era un'altra batteria, forse un po' troppo potente per lei ma non importava.Sapeva che lei era forte, sarebbe riuscita a sopportare qualche volt in più, no? Lux, invece, non riusciva più a sopportare la solitudine.
Prese la batteria, troppo grande per essere inserita all'interno, e la collegò al robot. I suoi occhi si illuminarono, poco a poco. Lux sorrise. La vide guardarsi intorno, incuriosita.
Ce l'aveva fatta. Ce l'aveva fatta! Non sarebbe stato più solo! Gli scappò una risata liberatoria. Non era solo! Non era solo! Lei e Lux sarebbero stati per sempre insieme, avrebbero parlato, avrebbero riso, e le loro chiacchiere e le loro risa avrebbero riempito quel silenzio insopportabile. Lux guardò il robot sollevare la mano e portarsela davanti agli occhi per studiarla.
Improvvisamente il corpo cominciò a surriscaldarsi, Lux sentì uno sfrigolio. No, non poteva succedere. Non ora, non adesso che finalmente era riuscito a darle la scintilla della vita. La luce negli occhi di lei si affievolì, la mano ricadde pesantemente sul fianco. No! Lux la sfiorò, terrorizzato. No, no, no! Lux vide il nero e il buio prevalere sulla luce.
Poi, gli occhi di lei si spensero, e con essi si spense lei. Un odore di bruciato si levò dal corpo, diffondendosi piano piano nella stanza. Lux rimase immobile, fissandola. Non poteva piangere, non sentiva nulla. Solo quel gelo che sente chi è solo. Si riscosse dal suo torpore quando fuoriuscì un piccolo sbuffo di fumo dal petto del robot. All'interno, il sistema del robot si era fuso. Irreparabile. Irrecuperabile.
Lux si prese la testa fra le mani. Era di nuovo solo. Solo. Solo. Ed era colpa sua. Colpa sua. Colpa sua, colpa sua, solo, solo. Disperato, Lux corse fuori dal laboratorio, ritrovandosi nel soggiorno. Il soggiorno vuoto, palazzo vuoto, strade vuote, città deserta. Solo. Colpa sua. Impossibile da sopportare. Un pensiero improvviso. Perché ostinarsi ad esistere? Perché?
Lux se lo chiese e non trovò risposta. Non c'era risposta! Non c'era mai stata! Soltanto adesso l'aveva capito! Lux guardò le proprie mani, fatte di metallo. Si guardò. Decise. Lux, robot costruito da umani, ultimo ancora funzionante della sua generazione, sopravvissuto della terza guerra mondiale, decise di spegnersi. Il suo ultimo pensiero volò alla batteria di uranio, quell'ultimo pezzo mancante che gli avrebbe permesso di...
Premette il bottone rosso che si trovava sul petto, posizionato leggermente a sinistra, là dove negli umani vi è il cuore.
Una fitta improvvisa e Lux rovinò sul tappeto. Poi rantolò e, finalmente, solo allora, scovò quel maledetto, ultimo, pezzo.
Note
1) Questa è la versione originale della storia che ho fatto partecipare al concorso "Tre parole, una storia". L'avevo scritta intorno a giugno del 2014 in occasione di un concorso indetto da una libreria, ma l'ho presentata troppo tardi e non sono riuscita a farla partecipare. E quindi l'avevo accantonata.
2) La storia dunque è uguale solo per la prima parte. Questa è la versione deprimente. Ma dopotutto, il regolamento del concorso imponeva di finire la storia con la frase sottolineata. E non mi lasciava molto spazio all'happy end, diciamo.
3) Mi è piaciuto tirarla fuori dall'oblio e darle un finale alternativo. E niente, mi sembrava carino farle leggere entrambe.
4) L'immagine a inizio capitolo non c'entra molto, lol. Però mi piaceva.
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Ritagli & Frammenti - raccolta di storie brevi
Short StoryQuesta raccolta immaginatela come un collage, disordinato e senza un tema, di ritagli sbilenchi e frammenti spezzati. Una serie di storie, alcune brevi, altre più lunghe, alcune commuoventi e tristi, altre allegre e con un finale a sorpresa.