Prologo

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La berlina nero opaco frenò bruscamente davanti all'alto palazzo sul quale erano incise le lettere DC praticamente in ogni angolo, iscrizione che trovava il suo apice al culmine del maestoso edificio, in cima all'ultima sporgente e rigogliosa tegola del tetto, dove albergavano, a caratteri cubitali, le due lettere con sotto la dicitura "Investment Group". Due uomini, uno dei quali era l'autista, vestiti in giacca e cravatta con tanto di occhiali da sole e auricolare, si precipitarono giù dal mezzo di trasporto. Uno dei due, quello sceso dal lato passeggero, si affrettò a indietreggiare e spalancò la portiera in corrispondenza del sedile posteriore destro. Un uomo scese e, non appena si mise in piedi, si chiuse la giacca col bottone standard dei completi più costosi. Un occhio attento avrebbe tranquillamente potuto identificare l'Armani che gli avvolgeva il corpo talmente stretto da poter scorgere i muscoli tonici che si tendevano ad ogni movimento. Un altro uomo, sceso dal sedile posteriore sinistro, si unì ai tre, attrezzato anch'egli con auricolare e occhiali da sole, nonostante la stagione estiva fosse terminata da quasi un mese. I quattro avanzavano tra la gente che li fissava allibita. Quello al centro, che pareva essere il più importante, non era attrezzato come i suoi compagni, ma sicuramente era conciato peggio di loro. Aveva un evidente livido sulla guancia sinistra e il labbro spaccato. Camminava a fatica, con ogni probabilità era uscito da diverse risse. Vincitore, ovviamente. Gli uomini del suo calibro non perdevano mai. Nonostante fosse malandato, la sua camminata risultava sicura, fluida, elegante in ogni sua sfaccettatura. I quattro entrarono nel palazzo, avanzando con passo deciso. Una segretaria gli urlò qualcosa per fermarli, probabilmente, ma gli uomini la ignorarono, raggiungendo l'ascensore. Un agente della sicurezza privata si portò dinnanzi a loro, tentando di bloccarli con il manganello, ma i tre uomini di contorno al più importante non glielo permisero, levandogli l'arma e spingendolo lontano. L'ascensore partì e si fermò solo all'ultimo maestoso piano dell'enorme palazzo. Quando le porte si aprirono, sei agenti della sicurezza li accolsero placcandoli. Mentre le tre guardie del corpo erano alle prese con loro, l'uomo vestito d'Armani sfuggì allo sguardo, evidentemente poco attento, della sicurezza. Camminò lungo il corridoio principale, raggiungendo, finalmente, l'ufficio più grande di tutto l'amplesso. Appena lo vide, si fermò e ragionò. Non poteva irrompere, o forse sì? I suoi pensieri vennero interrotti da una donna con una voce giovane che gli si parò davanti. L'uomo si concentrò e si impose di ascoltarla.

«Come ha detto?» domandò, rendendosi conto che stava parlando già da un pezzo. Faceva fatica a mantenere l'attenzione, non dormiva da, ormai, quattro giorni all'incirca. Si mosse, a disagio.

«Non può entrare, il mio capo ora è in riunione privata con il suo socio,» snocciolò lei, in un perfetto inglese, nonostante si notasse l'accento latino nella sua voce. Italiana o francese, avrebbe detto lui. Era attraente, capelli lunghi e lisci di un colore chiaro a metà tra il castano e il biondo, una corporatura magra ma non scheletrica, le labbra carnose e gli occhi color nocciola. Probabilmente portava una terza o una quarta, dettagli che l'uomo sapeva scorgere alla perfezione. Era molto elegante, con una camicia bianca portata nei pantaloni neri stretti e i tacchi alti.

«Lei è italiana o francese?» domandò lui, non riuscendo a trattenersi. La segretaria scosse la testa, sorridendo.

«Io... Italiana, ma... come l'ha capito? Ho un accento impercettibile.» L'uomo ricambiò il sorriso. Le donne non avevano segreti per lui. In realtà non c'era persona sulla faccia della terra che riuscisse ad avere segreti con lui. No, una c'era. Ed era proprio la persona che doveva vedere. Si riscosse, aveva bisogno di entrare in quell'ufficio. Con una mossa rapida scansò la donna, sfruttando i tacchi che la rendevano instabile. Lei imprecò, inciampando e tenendosi al muro.

«Mi scusi,» le disse, galante, lui, mentre spalancava la porta. Entrò come una furia e si piazzò davanti alla scrivania. Due uomini erano a colloquio. Uno aveva gli occhi azzurri e i capelli scuri, era alto e ben piazzato, portava una camicia bianca, condita con la cravatta nera in perfetta tinta coi pantaloni e i mocassini. Aveva le maniche tirate su, che risaltavano i muscoli delle braccia tesi con le venature pulsanti. L'altro aveva gli occhi spalancati e la bocca aperta. L'invasore conosceva benissimo quello sguardo di pura sorpresa. Passò qualche secondo, che due agenti grandi come armadi si precipitarono nell'ufficio, afferrandolo. Lui si dimenò, fin quando uno dei due uomini che erano prima seduti a discutere probabilmente questioni economiche, si alzò e sollevò una mano. Le guardie lo lasciarono e annuirono, uscendo dall'ufficio. Poi, il moro sorrise e lasciò anch'egli la stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Così, i due rimasero soli. Era come osservare due sfaccettature della stessa medaglia: erano entrambi bellissimi, vestiti bene e con l'aria fiera. Poi, uno dei due, quello dietro la scrivania, parlò.

«Cosa ci fai qui, Trev?» chiese, passandosi una mano tra i biondi capelli. Era esattamente come Trevor lo ricordava, solo un po' più vecchio. Certo, aveva solo 32 anni e quella barba che gli cresceva sul mento gli donava veramente tanto.

«Ho bisogno di te, Liam.» Il biondo si mosse, a disagio, poi sbuffò, scuotendo la testa.

«Sette anni. Sette fottutissimi anni che non ti fai sentire né vedere, e ora vieni qui, piombi dal nulla nel mio ufficio e mi chiedi aiuto? Perché dovrei farlo?» domandò Liam, seriamente dubbioso e afflitto. L'altro scrollò le spalle.

«Perché sono stato un coglione. E ti chiedo scusa. Per questo ho bisogno di te. Tu sei l'unico che mi sia sempre stato amico senza un secondo fine. Sei stato il mio testimone, cazzo. Sono veramente dispiaciuto per tutto ciò che ho fatto, e me ne pentirò per sempre.» Liam sorrise, ironico, per poi scuotere la testa. Trevor vide che stava per cedere, così rimarcò la dose.

«Ho combinato un cazzo di casino, amico. Ti prego, non so a chi altro rivolgermi,» disse il moro, quasi in lacrime. Liam annuì, invitandolo a sedersi.

«Di che si tratta?» chiese, togliendosi la giacca e rimanendo solo con la camicia firmata Gucci. Trevor rise.

«Di che si tratta? Sono cinque anni di vita da spiegare. Mettiti comodo. Da dove vuoi che parta?» domandò, fissandolo negli occhi azzurri. Liam scrollò le spalle.

«Dal principio.»

The Senator (Trilogy of Secrets, 3)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora