Second chapter

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2.

HPOV
«Ho dovuto comprarmi da sola il biglietto!» Mi fermai esausta e arrabbiata davanti all'ingresso dell'attico di Justin.

Dato il poco preavviso, avevo dovuto viaggiare in classe economica.

«Sapevo che potevi affrontare la spesa.»

«Un gentiluomo non compra il biglietto per sua moglie?» Buttai la valigia a terra e incrociai le braccia.

Il momento più scioccante era stato quando lui se n'era andato, ordinandomi di raggiungerlo a New York entro ventiquattro ore.

Era stato un insulto per il mio orgoglio, e lui lo sapeva. Perché non mi aveva forzato a salire sull'aereo, avevo dovuto fare tutto da sola, come se fossi la sua schiava. Ma non avevo potuto fare diversamente.

La mia immagine, tutto quello che avevo costruito di me, era troppo importante per rischiarla. Non sarei tornata alla condizione miserabile da cui provenivo. Era a causa di questo che lui poteva ricattarmi, che ero diventata codarda nei confronti di Zack.

Non l'avevo ancora chiamato. Ovviamente, neppure lui l'aveva fatto, il che rivelava la vera natura della nostra relazione.

«Ho verificato sul manuale, ma non c'erano particolari indicazioni sul comportamento cavalleresco per forzare una moglie straniera a seguirmi.»

«A che serve il manuale allora?» Ero ancora sulla soglia e lui mi sbarrava il passaggio. «Mi fai entrare?»

«Certo.»

Cinque anni prima, avevamo diviso l'attico per sei mesi. I più bizzarri della mia vita. Lui quasi non si era accorto della mia presenza, a meno che non avesse bisogno di me per andare a un ricevimento o dovesse esibirmi ad una cena di famiglia. Come ogni altro dettaglio sconveniente del mio passato, avevo chiuso fuori dalla mia mente ogni ricordo, ma adesso tutto quanto tornava. Il mio quarto anno in America, quando ero stata accettata per fare uno stage alla Bieber Communications. Andava tutto bene, mi stavo creando buone relazioni, imparavo come funzionavano le cose nelle grandi aziende. Poi un giorno il grande capo mi aveva chiamata nel suo ufficio e aveva chiuso la porta.

Mi aveva spiegato che aveva fatto una piccola ricerca, e di aver scoperto il mio vero nome. Che non ero Hannah Weston da New York, bensì Hannah Verga da Cuenca. Che non mi ero diplomata, non avevo neppure frequentato il liceo. E poi, con suprema arroganza, si era appoggiato all'indietro sulla sua poltrona, le mani dietro il capo, uno sprezzante divertimento negli occhi, e mi aveva detto che i mie segreti sarebbero stati al sicuro.

Se l'avessi sposato.

Ed io avevo accettato, perché non volevo perdere quello che mi ero conquistata.

Justin si fece da parte ed io entrai, lasciando a lui la valigia. L'appartamento aveva nuovi mobili, ma ancora neri e severi, così come erano nuovi la cucina e il tavolo da pranzo. La vista però era la stessa. Gli alti grattaceli spuntavano sopra gli altri palazzi, quasi a toccare il cielo. Mi era sempre piaciuta la città.

Lo avevo odiato per avermi obbligata a sposarlo, e avevo odiato me stessa per essere stata così vulnerabile, ma una volta entrata in quella casa avevo cominciato a pensare che non era poi così male. L'attico era raffinato e lussuoso. Niente che avessi mai sperimentato prima. Segretamente, l'avevo amato. Finché potevo ignorare il grande canadese che viveva lì, tutto il resto era bello, confortevole. Frequentavo ancora l'università, e i miei bilanci erano magri. Mi aveva presentato un lusso sconosciuto prima, che neppure avevo immaginato. Mi aveva dato qualcosa cui aspirare. «Sembra tutto... Meraviglioso.» sussurrai ora. Non ero mai tornata indietro in un luogo, prima. La mia casa d'infanzia, la Spagna, la casa di New York...

A game of vows. ↠ Justin BieberDove le storie prendono vita. Scoprilo ora