Third chapter

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3.

HPOV
Mi ero ormai abituata ai ristoranti eleganti e agli eventi mondani, ma non con Justin. Mi ero vestita in modo impeccabile, avevo raccolto i capelli in un nodo elaborato e mi ero messa un rossetto scuro. Lui invece era perfetto in un abito scuro, con la camicia bianca senza cravatta. Eravamo entrambi eleganti, ma avvertivo una tensione che non era rabbia. Aveva piuttosto fare con i sottili cambiamenti di lui che non riuscivo del tutto a definire, ma che in qualche modo mi turbavano.

Ci fermammo a La Playa, il motore si spense ed io aprii la portiera, ero quasi a terra quando lui mi raggiunse. «Venivo ad aprire io la portiera» mi disse.

«Posso farlo da me.»

«Sei mia moglie, querida*. Non credi che dovrei comportarmi da cavaliere?»

Ignorai il nomignolo usato da lui in spagnolo mentre lo guardai. «Ancora con la cavalleria. Pensavo che l'onore non fosse il nostro punto forte.»

«Lo è quando la stampa è coinvolta. Quanto meno, la nostra relazione deve sembrare forte e solida.» Mi toccò di nuovo il viso, e, di nuovo, sentii ribollire il sangue.

Una volta per me era stato facile dargli il bacio della buonanotte e andarmene nella mia camera. Il contatto mi faceva ardere solo le labbra... Adesso invece bastava un suo sguardo per far ardere tutto il mio corpo. Girai il viso, e l'aria della sera sulle guance mi sembrò più fresca dopo il contatto con la sua mano. Lui però mi afferrò il mento e mi fece girare di nuovo. «Non puoi comportarti come se il mio tocco ti facesse schifo.»

«Non lo faccio.» Mi accostai di più, feci scivolare un braccio lungo quello suo, e intrecciai le dita con le sue. «Visto?» Ero sicura che potessi sentire il suo cuore battere a mille. «Sembri così... Diverso» commentai poi mentre ci muovevamo. 

Consegnò le chiavi dell'auto al giovane valletto e mi condusse all'interno stringendomi la mano nella propria. Si trattava di un vecchio palazzo in mattoni, non conoscevo questo ristorante, dentro però era lussuoso e sofisticato e profumava di soldi e di paella*, non per niente i ristoranti spagnoli erano i miei preferiti. Cosa c'è di meglio della propria cucina tradizionale? Questo lui lo sapeva bene, infatti fu subito riconosciuto.

«Señor Bieber, un tavolo per lei e per la sua ospite?» Chiese il maître in nero.

«Si, grazie. Lei è la Signora Bieber, che è tornata a New York. Sono molto contento che sia qui.» Si girò verso di me, ravviandomi i capelli intorno al viso.

Il calore partì da quel punto per inondarmi tutto il corpo. Cercai di continuare a sorridere, mentre l'uomo chinava il capo.

«Bienvenida a New York, señora. Siamo lieti di riaverla tra noi.»

Potevo sentire lo sguardo di Justin su di me. «E io sono lieta di essere tornata.»

«Prego, da questa parte.» L'uomo ci accompagnò al nostro tavolo, in una zona tutta vetro e bianco, con brillanti sedili rossi, separata dal resto di una sala da una tenda rigida bianca.

Justin mi cedette il passo. «Grazie.»

Quando eravamo sposati, il sabato sera eravamo soliti ad andare in posti del genere, dove lui era ben conosciuto. Recitavo bene la mia parte, sorridendo amabilmente mentre pensavo a cosa ordinare. Ora era tutto diverso. Nessuno ci aveva fermati o parlava con Justin di affari o del prossimo party. Guardandomi alle spalle, vidi che molti dei presenti ci sbirciavano di sottecchi, e non con bonomia. Erano come spaventati o sconcertati.

«Hai recitato bene» osservò quando fummo soli. «Ma l'hai sempre fatto.»

«Lo so.» Recitavo bene qualsiasi parte. Avevo lavorato duro per togliermi l'accento spagnolo da ragazza dei bassifondi e accedere all'affilata università di New York. Avevo studiato il doppio degli altri per arrivare ad apparire come l'annoiata e disinvolta cittadina che volevo essere. Solo quando ero da sola mi permettevo di assaporare con gioia quei lussi che per gli altri erano scontati.

A game of vows. ↠ Justin BieberDove le storie prendono vita. Scoprilo ora