Capitolo 9

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Avevo pensato tutta la giornata alla sera prima, ma soprattutto all'apparizione di Jacob. Quella giornata non volli sentire nessuno e la usai un po per scaricare lo stress.

La penna stretta fino allo sfinimento dalle mie dita stava scivolando leggera sul foglio a protocollo, e che l'indomani avrei dovuto consegnare al professore di letteratura. Per quel compito, eravamo stati incaricati di scrivere quale secondo noi era il motivo per cui eravamo stati messi al mondo, che ruolo avevamo nella vita di tutti gli altri.

Avevo sempre avuto una buona considerazione di me, e ambivo da tempo a un futuro abbastanza dignitoso, mi piaceva l'idea che di la a venire avrei potuto avere un ruolo importante nella vita delle altre persone, che avrei potuto aiutarle, migliorando la loro vita in meglio. In pratica il lavoro che dovevamo svolgere era su come ci immaginavamo il nostro futuro.

Stavo lasciando la mente aperta, e non avevo paura che il mio testo il giorno dopo sarebbe stato letto, avrei inventato come sempre una scusa per evitare ciò di cui ero terrorizzata da sempre: aprirmi del tutto con gli altri. La mia scelta poteva essere definita contraddittoria con i miei principi e poco coerente ma ero fatta così.

Nonostante mi piacesse far sapere alla gente la mia opinione su un certo argomento, giusta o meno che fosse, allo stesso tempo mi dovevo sforzare di tapparmi la bocca per paura di offendere o andare contro le idee degli altri, magari confondendo i loro ideali. E a me non era mai piaciuto interferire. E proprio questo mio comportamento che mi obbligava indubbiamente al silenzio, portava sempre le persone che mi circondavano a pensare che avessi qualche problema neuronale, ciò che non avevo.

All'improvviso sentii il portone principale sbattere e un rumore di passi inconfondibile.

Mi alzai come una molla dalla sedia, che cigolò, e mi misi a correre per raggiungere al più presto l'ingresso. Percorsi il lungo corridoio e appena svoltai, mi bloccai all'istante con un sorriso che mi partiva dall'orecchio e mi finiva nell'altro.

Un uomo mi dava le spalle ma lo riconobbi lo stesso: mio padre finalmente era a casa.

Presi la rincorsa e spiccando un salto mi aggrappai alla sua schiena come un Koala:

"Papà finalmente sei a casa!" ridacchiai felice come una pasqua mentre lui mi riappoggiava lentamente con i piedi per terra.

"Si stella, lasciami arrivare a casa perlomeno" disse passandosi una mano sul viso stanco. Una barba incolta gli sputava sul viso leggermente appuntito, sottolineando la sua stanchezza. Ma non ci feci tanto caso, perché pervasa da una felicità che solo papà mi provocava.

Mamma ci raggiunse poco dopo, abbracciando il marito. Nonostante indossasse dei tacchi alti che le regalavano qualche centimetro in più, tra le braccia di mio padre sembrava uno scricciolo. Si staccarono giusto quel poco che gli permise per guardarsi negli occhi, annuirsi a vicenda per poi spostare lo sguardo su di me.

Un bruttissimo presentimento mi scosse le viscere.

I miei genitori si staccarono del tutto, e mio padre promise di tornare, giusto il tempo per cambiarsi le vesti eleganti con qualcosa di più comodo e potersi levare le scarpe che ormai gli erano quasi diventate una seconda pelle, da quanto tempo le stava tenendo.

Stavo per tornare in camera mia per finire il testa per la lezione del giorno dopo, ma la voce di mia madre mi richiamò dalla cucina. Camminai lentamente, pervasa da una strana sensazione, e con movimenti ancor più calcolati mi sporsi dalla porta della cucina per guardare negli occhi la donna che mi sedeva davanti:

"Abigail, io e tuo padre ti dobbiamo parlare di un paio di questioni importanti." Aia, se già iniziava con il mio nome completo allora di sicuro c'era qualcosa che non andava. Con un cenno della mano mi indicò la sedia postata dirimpetto ad altre due, una occupata da lei, e l'altra destinata a papà:

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