Capitolo 5

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Erano passati un paio di giorni, da quando avevano avuto inizio le operazioni di occupazione della penisola e i vari telegrammi del Reichsfuhrer inviati all' Obersturmbannführer Diedrich parlavano chiaro.

L'indomani del 26 settembre 1943, Diedrich convocò nel proprio ufficio alla villa Wolkonsky, il presidente della Comunità ebraica di Roma, David Rodi e quello dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, Dante Bengasi.

L'aria era cupa, specchio del clima di inquietudine che aleggiava sulla città. Si percepiva una sensazione di pericolo costante in ogni angolo della strada; molteplici camion di militari scorrazzavano per la città e le marce continue dei militari tedeschi, riempivano Roma di un costante rumore cadenzato di passi, che sbattevano violentemente sul selciato. Il loro passo dell'oca, risuonava rombante davanti la popolazione.

Da tempo si erano avviate le continue ricerche su famiglie ebraiche non ancora trovate e di altre minoranze "indegne" di vivere. L'idea era di isolare questi soggetti considerati pericolosi per l'armonia della società, relegandoli in dei luoghi adibiti a raccolta per la deportazione oppure in ghetti come quello di Roma, che accoglieva allora più di 1500 ebrei.

La vita era difficile da quelle parti, il cibo scarseggiava, le condizioni igieniche erano disperate e i morti abbandonati sulle strade erano molteplici, le persone ormai da tempo si erano abituate a scavalcarli durante la loro camminata, come se fosse stata normale amministrazione.

Il lavoro era inesistente, se non si considerava coloro che si erano messi a disposizione del Reich per racimolare qualcosa in più, a discapito e disprezzo degli altri.

Le ingiustizie e i soprusi dei soldati non si contavano più ormai, spadroneggiavano sulla popolazione come fossero stati i padroni, le loro risate mentre picchiavano una donna o maltrattavo un anziano, denotava una loro completa mancanza di rispetto e ritegno verso gli italiani e le persone indifese, a dispetto di cosa la propaganda diceva.

Nell'ufficio della villa i due uomini si sentivano a disagio, si torturavano le mani e si guardavano intorno. La loro presenza appariva ai loro occhi ingombrante, i quadri del fuhrer sembravano minacciarli di morte imminente e le varie bandiere di svastiche, che urlavano a tutto regime, denotavano l'appartenenza al regime che stava rovinando loro la vita.

Dante Bengasi, un uomo brizzolato, basso di statura e con un andamento strascicante nella camminata, si voltò verso David e con un cipiglio preoccupato gli sussurrò << Che ci facciamo qui? non dovevamo venire... >>

<< Lo abbiamo fatto perché ci ha invitato il Comandante >> gli rispose l'uomo conciso. Tra i due, lui sembrava quello meno timoroso, anche se dentro stava morendo. Sentiva che da tempo, le cose si stavano mettendo male, si vociferava che la sistemazione non era affatto definitiva e il ghetto non li avrebbe più contenuti.

Sono stati convocati solo ieri sera, perché il Comandante aveva la necessità di parlare con loro, infatti stavano aspettando il suo arrivo, non azzardandosi a sedersi.

La porta si aprì di scatto e si erse sulla soglia Diedrich, il quale esaminò gli "ospiti" con uno sguardo sprezzante, per poi sorridere in maniera falsa e quasi denigratoria. Indossava la sua uniforme impeccabilmente stirata a lucido e impugnava il suo frustino. Chiuse la porta e come un avvoltoio si ritrovò a girare loro intorno, come se fosse stato un falco su una preda. Infine raggiunse la scrivania e si versò un bicchiere di liquore, scrutando i due componenti, mentre lo sorseggiava.

I due uomini lo guardavano attentamente: uno con uno sguardo terrorizzato, l'altro con finta determinazione.

Porse il bicchiere di fronte ai due, fingendo di volerlo offrire loro gentilmente, come se si trovassero nel galateo, come se lui fosse il padrone di casa e loro gli ospiti.

Passione come OssessioneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora