Prologo: dicembre 2015

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Ogni mattina, a orari diversi a seconda delle mie lezioni, passo davanti a quel mimo.

È sempre nello stesso punto della piazza, nel crocevia, immobile, lo sguardo fisso sui passanti, o forse sugli edifici dietro di loro, o forse su un punto ancora più lontano nel tempo e nello spazio. È basso, e nonostante stia su un piedistallo resta sempre più basso di me quando gli passo accanto. È completamente dipinto di bianco, dalla testa ai piedi. L'unica nota di colore sono i baffetti neri alla Charlie Chaplin. Perfino gli abiti eleganti sono di un bianco accecante.

Ogni mattina se ne sta lì, sotto il sole e sotto la pioggia, un piccolo cestino aperto davanti a sé a raccogliere le offerte. Una volta gli ho lasciato giù un euro. Mi ha strizzato l'occhio, prima di tornare a fissare il nulla.

Non ho mai udito la sua voce, non l'ho mai visto in una posizione diversa da quella. Un giorno vorrei fermarmi insieme a lui, quasi fosse un maestro di yoga e io la sua apprendista. Vorrei avere la sua calma interiore. Invece un fuoco mi ribolle dentro, un fuoco che non si estingue e non trova sfogo. Ho provato col fumo, ma il sapore della nicotina mi fa schifo. Ho provato con lo sport, ma mi arrendo sempre dopo le prime lezioni, perché sono per natura una persona pigra. L'unica cosa che mi permette di sfogarmi è scrivere.

Non sono una scrittrice professionista. Scrivo per diletto, o meglio, per lo sfogo. Senza la scrittura, non so come farei. Probabilmente mi mordicchierei le unghie fino a farle sanguinare o mangerei schifezze fino a ritrovarmi piena di brufoli e con un abbonamento fisso ad un negozio da taglie forti.

Invece scrivo. E non intendo questo diario. Ho scritto una storia. Una storia d'amore. Io che d'amore non so nulla. Io che sono ancora vergine a diciannove anni. Eppure l'ho scritta, e non voglio peccare di arroganza dicendo che a parer mio è anche una buona storia.

Chissà se anche Chaplin il mimo scrive. Chissà se anche lui sente il bisogno di sfogarsi. Credo di sì. Non puoi rimanere un'intera giornata fermo immobile ad osservare il nulla e non sentire il bisogno di sfogarti. Oppure è proprio così. Il bisogno si è anestetizzato, come accade ai carcerati, che devono liquidare la loro vita di prima e inventarsi nuovi metodi di sfogo, finendo per rinunciarvi del tutto.

Io non saprei mai rinunciare alla scrittura. A volte mi vengono dei blocchi, certo. Allora mi invento altre storie. Scrivo una decina di pagine, poi torno alla storia principale e liquido tutto. Perché per me quelle storie non sono nulla. Sono solo vite che invento, vite migliori della mia, vite più spericolate, o anche solo più allettanti. O semplicemente normali.

Ragazze che hanno un padre che lavora otto ore al giorno e poi torna dalla famiglia. Una madre che cucina la cena e stira i vestiti guardando Barbara D'Urso in televisione. Un cane che scodinzola quando gli versi i croccantini nella ciotola. Una casa con poche stanze ma che sa di affetto e amore, con fotografie incorniciate sul caminetto, calamite colorate sul frigo e disegni di bambini appesi dappertutto. Io ho fatto tanti disegni da piccola. Erano tutti orribili e stilizzati, ma ho visitato molte case, molte famiglie, e ho visto moltissimi disegni orribili in bella vista. I miei genitori non hanno mai appeso neanche uno dei miei disegni. Mia madre ci teneva a dare alla nostra casa un'immagine impeccabile. Quindi niente calamite, niente cani che sporcano in giro, niente cucina in disordine e chiazzata di sughi perché la mamma non sa cucinare. Meglio gingilli costosi proveniente da varie parti del mondo, una gatta pulita e una governante-cuoca-domestica che pensi a mantenere la casa ordinata e a portare piatti succulenti in tavola.

Queste sono le vite che invento. Non ho bisogno di supereroi o di fate per creare un mondo da favola. Molti ragazzi non si rendono conto della fortuna che hanno. Credono che la loro normalità sia noiosa, ma non pensano a chi non ha nemmeno quella normalità.

Non pensano alle madri morte in incidenti stradali, ai padri che stanno via anche tre giorni a settimana per lavoro, ai fratelli che sono solo degli estranei, dei coinquilini.

Chissà che famiglia ha Chaplin il mimo. Chissà se ha una moglie, dei figli, se vive ancora con i genitori o da solo.

Non lo posso sapere, e non lo saprò mai. Forse un giorno scriverò una storia su di lui. Una di quelle storie lampo che batto al computer e di cui mi stanco dopo qualche giorno. Una di quelle storie che non leggerà mai nessuno.

Una storia come quella che sto scrivendo ora. Una storia, per la prima volta, non inventata. La storia della vera me. Nessuno la leggerà. Non la pubblicherò mai. Troppe persone si sentiranno coinvolte. Troppa gente con cui sono stata ipocrita e che ora smaschererò per quella che è. Fatti e persone qui riportati sono realmente esistiti. Avranno nomi diversi, ma se leggessero queste pagine non faticherebbero molto a ritrovare i loro caratteri.

Ho inventato un'unica persona, o sarebbe meglio chiamarlo personaggio. È il mio finale felice. Per questo ho dovuto inventarlo.

Il mimo sembra guardare nella mia direzione, in questo momento. Sono seduta in un bar all'aperto, proprio davanti a lui. Il mio portatile ticchetta sotto i polpastrelli e la gente mi guarda incuriosita. Una vecchietta dietro di me continua a sbirciarmi da ben dieci minuti. Ora arrossisce, perché ha letto che ho scritto di lei. Cara signora dal golfino ricamato e il foulard rosa, senza volerlo sei entrata nella mia storia e nella mia vita.

Chaplin mi fissa, ne sono sicura, con i suoi occhietti neri. Ha la solita espressione placida, eppure sono sicura che mi stia strizzando l'occhio.

Esito sulla tastiera. Qualcuno una volta scrisse che la parte più difficile di un romanzo è l'inizio. Non sai quali parole usare, se iniziare con una frase ad effetto o una lunghissima descrizione alla Jane Austen.

Alla fine propendo per il metodo più semplice.

C'era una volta...

La Ragazza con il FuocoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora