Non parlai con Travis da quel giorno fin quando non arrivò la settimana in cui dovemmo partire per New York dopo che il pagamento era stato effettuato verso febbraio. Erano passate le vacanze di Natale, l'Epifania ed io e lui eravamo ancora nella fase di "allontanamento momentaneo". Il giorno dopo alla partita di football, Todd mi aveva riempita di domande: dove mi ero cacciata, che fine avessi fatto, perché non ero più tornata. La mia risposta? Bugie. Non volevo essere onesta con Todd, lui non meritava di ascoltare come erano andati i fatti e raccontarli. Tra l'altro, mi faceva male. Non potevo credere che tra me e Travis era in corso quella pausa che mi costringeva a cambiare direzione ogni volta che lo incontravo per i corridoi o quando era in compagnia di Melanie, a baciarsi contro un armadietto qualunque o a sorridersi a vicenda come due adolescenti alle prese con la storia più romantica del secolo. Era semplicemente inaudito e schifoso; o era semplicemente schifoso il fatto che ora Melanie stesse con il ragazzo che amavo ed io ero completamente da sola, senza neanche Todd che aveva orari di lezione ed uscite diversi dai miei. Ero da sola in un mare di niente; ogni volta che camminavo per i corridoi, avevo la strana sensazione di dover fare qualcosa, di dover incontrare qualcuno. Mi chiedevo a mente cosa stessi veramente facendo, che cosa volessi. E la risposta tardava sempre a venire perché la mia testa era tornata indietro di molti anni, quando ero nelle altre scuole del Missouri o della Louisiana. Quando ero sola come lo ero adesso in California. Sola. Sola perché non c'era più neanche Travis. In classe la cosa era ancora più imbarazzante. Il suo banco era proprio quello accanto al mio, verso sinistra, e non poterlo guardare come era mio solito fare fu davvero molto difficile; ogni volta che avevo voglia di guardarlo, dovevo serrare le labbra e costringermi ad abbassare il capo e a non pensare a nulla.
«Verrai a New York?» Era la domanda più chiesta appena arrivò la stagione invernale e quella primaverile.
Quando venivano a domandarla a me, rispondevo di si e mi lasciavano stare... però dalle loro espressioni finali ero certa che fossero infastiditi dalla mia presenza anche in una gita scolastica.
Tornando a raccontare, arrivò il fatidico giorno in cui mi ritrovai al al Santa Monica Airport – arrivata assieme al mio gruppo (Travis incluso) su un bus partito da scuola – e su quell'aereo che sarebbe decollato tra pochi minuti e mi avrebbe trasportata finalmente nella città dei miei sogni. Ero affiancata da due tipe di altre sezioni che, ovviamente, non conoscevo e da cui mi tenni alla larga per tutto il viaggio. Mi presi le cuffie che avevo già in mano e le collegai al cellulare così da poter dormire e ascoltare le mie canzoni del momento, quelle canzoni che erano raggruppate in una playlist, la playlist dei momenti malinconici e dei momenti di merda. Era una delle playlist più usate da me, per parlarci chiaro. La prima canzone che partì dal mio cellulare fu proprio Love Don't Break Me, di Bill Kaulitz, una delle mie preferite e una delle canzoni che, in quel lungo viaggio, faceva al mio caso.
Il viaggio non sarebbe stato molto lungo, considerando che saremmo dovuti scendere soltanto dall'altra parte del paese, ma il tempo massimo previsto fu di un'ora o più, e fu rispettato successivamente. Nel frattempo, però, chiusi gli occhi e sperai di non sognare occhi blu o ragazzi biondi dalle ali nere.◊ ◊ ◊
Atterrammo al J.F. Kennedy International Airport (nel distretto di Queens, New York) dopo un'ora e un quarto. Il tempo previsto, insomma. Le nostre valige vennero fatte scendere subito dopo il nostro atterraggio e, neanche il tempo di respirare aria newyorkese, dovemmo subito salire su un altro – e unico - bus presente fuori dall'aeroporto che ci avrebbe poi portati al The Roxy Hotel, distretto di Manhattan. Il viaggio dall'aeroporto fino al borgo di Manhattan sarebbe dovuto durare un'ora, ma nessuno conosce veramente il traffico della città di New York. Fu quando superammo la lunghissima coda da Queens a Manhattan, e arrivammo al The Roxy Hotel, che sospirai di sollievo una volta scesa dal bus. Travis scese per ultimo, con Melanie che lo aspettava, e mi diede una rapida occhiata per poi stabilirsi lontano da me con la sua nuova ragazza e Lin.
Mi morsi le labbra e cercai Todd. Il brutto fu che il suo gruppo sarebbe arrivato più tardi.
Aspettai che l'autista aprisse il portabagagli, così che potessi prendere la mia valigia quando Mrs Cur mi avrebbe chiamata come d'appello. Guardai il cellulare e dovetti ristabilire l'orario per non confondermi con il fuso orario delle tre ore tra lo stato di New York e quello della California. Se a Santa Monica – come diceva il cellulare – erano appena le undici della mattina, allora dovevo portare l'orario alle due del pomeriggio. Per non sbagliarmi, mi voltai un secondo per controllare l'ora dall'enorme orologio circondato da piante e appartenente, ovviamente, all'hotel. Mi sentivo abbastanza scossa, ora che stavo realizzando la differenza d'orario, ma non tanto scossa per vomitare. Quando fui chiamata dalla professoressa, andai a prendere la mia valigia, la trasportai sul marciapiede dell'hotel.
«Puoi entrare in hotel e andare a prendere la carta della tua stanza. Spero che ti piacerà questa gita d'istruzione.»
Le sorrisi, alzando il manico della valigia, e la ringraziai. L'hotel, ora che lo guardavo bene, era un incanto. Alto sei piani, innumerevoli finestre, persone che, comunque, continuavano a vivere attorno a noi, i due cigli di strada tra il The Roxy Hotel pieni di macchine e taxi, il cielo azzurro macchiato da qualche ciuffo di bianche nuvole... era tutto perfetto, come me lo aspettavo. Era l'aria di New York. L'aria di quella città che mi aveva sempre fatta sognare. Avanzai a passi felpati per curiosare all'interno dell'albergo. Mi fermai sui miei stessi passi e non riuscii neanche a raggiungere la reception per la meraviglia: l'interno sembrava un piccolo pezzo di paradiso che aveva deciso di entrare nel mio campo visivo per dare vita a qualsiasi cosa. C'erano luci in ogni dove, sei piani superiori sulla mia testa presentati da balconate interne che davano l'aria di nobiltà e che si affacciavano sull'immenso salone di quello che doveva essere il pianobar dell'hotel, composto da divanetti, poltrone, tavoli che somigliavano a quelli che si trovano all'interno delle crociere; proprio dalla parte opposta alla reception che stavo cercando, c'era un vero e proprio palco composto da strumenti ancora non in uso. Michael Key, lessi da un cartello appeso a mezz'aria. Raggiunsi, dunque, la reception che avevo avvistato e vi trovai dietro un uomo alto che vestiva con smoking e indossava dei bellissimi occhiali – non del tutto rotondi – che erano unicamente di vetro e che nascondevano i suoi occhi nocciola. Non immaginai quanti dollari avesse speso per quelli. Dovetti ammettere che non era niente male come uomo quando decisi di smettere di guardare ogni cosa che mi circondava e posare lo sguardo sull'incaricato alla reception. «Le diamo il benvenuto al The Roxy Hotel, signorina.» Mi sorrise, ampliando quelle labbra sottili e rosee e mettendo in mostra quei denti bianchissimi. «Posso sapere il suo nome?»
Non mi lamentai di sentirlo darmi del lei nonostante odiassi con tutta me stessa il solo fatto di parlare con un certo cenno alla cortesia. «Lux Harper.» Risposi con voce piccola.
L'uomo annuì, regalandomi un dolce effetto di paternità e di tranquillità, e sorrise ancora più dolcemente quando trovò il mio nome. Alzò gli occhi su di me. «La carta è stata già donata ad una certa Ally Dighel. Stanza C32, piano tre.»
«Oh.» Presi immediatamente il cellulare e scrissi tra le note il nome della ragazza e la stanza, soprattutto il piano. «La ringrazio.» Mormorai, prima di essere salutata. Trasportai la la valigia verso l'ascensore che si trovava sull'ala destra dell'hotel, lo chiamai, con l'ansia che cresceva ad ogni secondo. Non ero mai salita su un ascensore da sola perché avevo paura che potesse bloccarsi, perciò salivo su di esso soltanto se c'era o mia madre o mio padre. Però stavolta non avevo nessuna compagnia ed ero obbligata a fare tutto da sola. Quando le porte si aprirono, con un piccolo ansimo di ansia, salii all'interno e premetti il numero tre. Vidi come ultima cosa l'uomo che donava la carta ad un ragazzo e poi niente, mi ritrovai a guardare il mio stesso riflesso dalle porte di metallo ormai chiuse. Lo leggevo io stessa l'agitazione e la tensione che stavo vivendo in quell'istante e pregai di arrivare in fretta a destinazione. Sentivo un mancamento proprio sotto i miei piedi e mi ressi velocemente alla ringhiera di metallo che era presente al mio fianco. Mi chiesi perché ci fossero degli specchi proprio in un ascensore e mi diedi una risposta: probabilmente a calmare chi, come me, aveva paura degli spazi chiusi. Arrivata, mi sbrigai ad uscire e a riprendere in mano il cellulare che avevo infilato, da brava ragazza che ero, nel giubbotto. C32 era la mia stanza. Il corridoio in cui mi trovavo partiva da C18, perciò dovetti camminare su quel bel tappeto di velluto rosso, e in quel corridoio inquietante, fino ad arrivare alla C32. La porta, ornata d'oro scintillante, sembrava solitaria. Bussai all'interno e sospirai quando una delicata ragazza dai capelli rossi legati da due trecce, che indossava degli adorabili occhiali neri e un vestito verde che le davano tanto l'aria di essere timida e delicata, si presentò davanti ai miei occhi.
«Tu devi essere Ally.» Mormorai, profondamente a mio agio. «Io sarò la tua compagnia di stanza.»
Ally mi fece entrare e sospirai ancora di più quando vidi soltanto due letti nella stanza: la professoressa Cur mi aveva divisa soltanto con Ally. Le fui profondamente grata di quella sua scelta. Posai la valigia vicino ad uno dei due letti e mi voltai verso Ally che era rimasta davanti la porta a guardare ogni punto della stanza senza mai guardare me.
Mi bagnai le labbra. «Sono Lux.»
Ally corse a guardarmi immediatamente. «Lo so chi sei... . I ragazzi a scuola parlano continuamente di te.»
Aggrottai la fronte e mi grattai la nuca. Non ero neanche arrivata e già avevo scoperto qualcosa che non sapevo? «Che cosa dicono?»
Ally distolse lo sguardo e lo posò sull'enorme finestra di vetro che dava sulla strada e che si trovava proprio dietro le mie spalle. «Dicono che sei l'amica di Travis. Molti pensano... molti pensano...» Ally arrossì.
Pensai a cosa avessero potuto pensare e arrossii anche io. «Pensano che me lo porti a letto, vero?» Mormorai, con voce piccola.
Ally annuì immediatamente, ma non si mosse da quell'angolo.
«Fidati o meno, ma non andrò mai a letto con uno come Travis.» Misi la valigia sul letto, prendendo già possesso di quest'ultimo, e sussurrai: «Non voglio avere nulla a che fare con lui.»
Ally fece un passo in avanti. «So anche che non vi parlate più.»
Scattai a guardarla, con un ciglio alzato. Lei come faceva a sapere tutte queste cose?
Guardò la mia espressione ed arrossì ancora di più. Si grattò la nuca. «Lin non sa stare zitta.» Mi confidò a bassa voce
Strizzai gli occhi e tornai a guardare i miei indumenti nella valigia. Lin. Non riuscii più a sopportare neanche il suo nome.
«E' un vero piacere conoscerti, comunque.» Venne al mio fianco e mi tese una mano.
Voltai il capo verso sinistra, verso di lei e, guardandola negli occhi, guardando quel sincero verde che splendeva nelle sue iridi, capii che non sarebbe stata una brutta "vacanza", quella. «Il piacere è tutto mio.» Le restituii la stretta.◊ ◊ ◊
Restammo per una settimana e tre giorni in città e per quel primo giorno non facemmo granché. Molti di noi non uscirono e non scesero nel ristorante dell'hotel a cenare (i quali chiamai "patetici") e mi chiesi se fra di loro, fra i patetici, ci fosse anche Travis come c'era Todd.
Lasciai l'hotel – senza all'allontanarmi troppo e aver sempre il numero di Mrs Cur a portata di mano – verso le sei del pomeriggio, con la compagnia di Ally la quale mi spiegò di essere attratta dalla Grande Mela. Il cielo, il famoso cielo newyorkese, era dipinto da sfumature del giallo e del rosso che donarono ai miei occhi uno spettacolo a dir poco mozzafiato: fu uno dei tramonti più belli che io avessi mai visto. Proprio sul ciglio destro, opposto all'hotel, c'erano almeno una decina di ristoranti e tavole calde dove avremmo potuto sederci e mangiare senza preoccuparci di essere lontane. Tra ristoranti italiani, europei in generale, decidemmo di affidarci ad una tavola calda economica – così da non spendere molto denaro – che si trovava tra Bouley Botanical (un piccolo pub per eventi) e altri due edifici che comprendevano a sua volta un ristorante italiano (da Mikele) e un bar (B Flat). La tavola calda si chiamava Baked ed aveva una splendida icona bianca lucente che, in cima alla vetrata principale, scriveva il nome del locale – completamente verniciato di un colore nude, tra un marrone freddo e il grigio caldo . Io ed Ally entrammo dalla porta destra e apparì davanti ai nostri occhi un lungo corridoio il quale portava in una sala dove ci si poteva sedere comodamente per tutto il tempo desiderato. A destra, c'era l'enorme bancone da cui bisticciavano due uomini robusti e paffutelli che indossavano una T-shirt nera e un paio di jeans. Quando si accorsero di noi, smisero di parlare e sorrisero entrambi come se non fosse successo.
«Buonasera!» Esclamarono in coro.
Ally fece un passo indietro per farmi parlare. Detestavo farlo davanti a persone che non conoscevo. «Buonasera, ci sono dei tavoli liberi?»
L'uomo sulla sinistra, annuì mentre dava un'occhiata più sicura. «Certo.»
Ci avvicinammo al bancone per guardare cosa c'era da mangiare: tramezzini con dei ripieni che mi avrebbero fatto sicuramente schifo, semplici toast, dei Croissant Sandwich, Savory Pocket (un pacchetto completo di mozzarelle, salumi e verdure diverse), un completo di verdure o di carne, frutta a volontà, focacce, zuppe... «Vorrei ordinare una focaccia ripiena di prosciutto e insalata.» Dissi, cercando di essere molto sicura della mia scelta. In realtà non lo ero dato che a me il prosciutto neanche piaceva, ma sembrava l'unica grande scelta in mezzo a cibi particolari – ma economici – che erano presenti lì. Mi rivolsi ad Ally: «Tu cosa prendi?»
«La stessa cosa.»
Ne ordinai un'altra anche per lei.
I ragazzi ci invitarono a sederci comodamente su un tavolo a nostra scelta e ad attendere ciò che avevamo ordinato. La sala successiva, era arredata da semplici tavoli di legno lavorato che avevano la superficie colorata di rosso e da sedie di metallo che, miracolosamente, erano molto comode. Ad attirare l'attenzione, probabilmente era l'enorme B illuminata da luci rosse al neon addossata al muro che sembrava essere stata messa proprio lì come per dare il benvenuto ai clienti.
«Non è neanche da due giorni che siamo qui e a me New York già piace.» Commentò Ally con la sua piccola voce, sedendosi davanti a me.
Il cibo arrivò immediatamente e pagammo in quello stesso momento, per nostra scelta. Pagammo, in due, dieci dollari. «Pensavo peggio.» Commentai io, prendendo quella focaccia ed ispezionarla. «Non posso credere che ho speso cinque dollari per quest'enorme focaccia.»
Ally aveva già iniziato a mangiarla. «Sai già che non la mangerai?» Domandò poi, coprendosi la mano nel mentre masticava.
Feci una smorfia. «Non mi piace molto ciò che c'è dentro.» Risposi a bassa voce.
«Allora perché l'hai ordinata?»
Alzai le spalle. «Sembrava la scelta migliore.»
Ally mi sorrise, evidentemente molto divertita. «Tu sei davvero molto particolare.»
Sorrisi debolmente a quel suo commento.
Non volevo più essere considerata particolare da nessuno.

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BROKEN | Cercavo di salvarlo
Teen Fiction"Puoi aiutare qualsiasi persona in questo mondo, Lux. Lo puoi fare, te lo dico con tutta la sincerità che possiedo. Ma non puoi aiutare qualcuno che è destinato a cadere." - Travis Bernard. Lux Harper sa che Travis Bernard non è il ragazzo più socie...