01. Black

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Pensai di morire sulle scale della mia nuova scuola, a Santa Monica. Lo pensai con certezza perché, non appena messo un piede sul primo gradino, fui inondata da adolescenti chiassosi e felici di tornare nella solita routine di tutti i giorni. Provenivo da St Louis, una cittadina tranquilla sul Mississipi-Missouri dove i ragazzi non sono per niente euforici ma danno sempre un contegno alla loro felicità mattutina. Non ero per niente abituata a tutto quel rumore in primo giorno, soprattutto se ero la ragazza nuova e avevo una tensione addosso che nessuno avrebbe sgonfiato dentro il mio stomaco e così anche la mia nausea che mi stava uccidendo assieme alle spinte dei miei compagni. La cosa buffa fu che non sapevo neanche se la mia classe - tanto meno il mio armadietto - fosse al piano superiore ma mi ero trovata accidentalmente sulle scale solo perché la campanella aveva suonato ed io ero andata nel panico, non sapendo proprio dove andare. Dietro la cover del mio cellulare avevo scritto il numero del mio armadietto, il suo codice e perfino dove si trovava ma in quel momento fu impossibile controllare qualsiasi cosa. Le scale erano interminabili, vista da quella prospettiva iniziale, tanto che una volta al primo piano presi a respirare con calma per evitare che vomitassi sul pavimento mentre cercavo di aprire la cover e tirare fuori quel foglio di carta scritto da mia madre che aveva calcolato ogni cosa, firmato dei documenti per la mia iscrizione e parlato con il preside della scuola in persona, senza parlare prima con la sottoscritta che avrebbe affrontato tutto quanto da sola.

Il foglietto di carta si era un po' stropicciato a causa del modo poco carino in cui lo avevo postato nella cover, ma non diedi peso alla cosa dato che stavo leggendo: 149 (3850); piano 3.

Capii in un istante che il 149 era il numero del mio armadietto, quello a quattro cifre era il suo codice d'apertura e che piano 3 significava fare un'altra rampa di scale con adolescenti in crisi ormonali i quali mi avrebbero sicuramente fatto vomitare. Mandai indietro il collo e lo massaggiai per qualche secondo, per poi imbattermi di nuovo sulle scale in compagnia di un'altra cascata di ragazzi in preda a smanie adolescenziali. Finite le benedette scale, scattai verso gli armadietti in cerca del cento quarantanovesimo. I corridoi di quella scuola, dovetti proprio notarlo, erano molto ampi e disponevano di troppi armadietti e di troppe classi e laboratori che mi facevano solo andare in confusione.

135... 136... 137...

Un altro paio di passi e me lo ritrovai davanti, vicino ad un altro armadietto che era aperto e il quale stava venendo scassinato da mani piuttosto frettolose. Intanto aprii il mio, illusa dal fatto che potesse nascondere qualcosa, e ci trovai dentro solo del vuoto dopo aver ruotato il lucchetto di metallo blu per quattro volte. Con un sospiro triste, aprii il mio zaino per decidere cosa mettere all'interno, per poi posare qualche libro di troppo e qualche quaderno. Chiusi con gentilezza il mio armadietto blu come tutti gli altri. La persona al mio fianco a cui apparteneva l'armadietto che affiancava il mio, stava continuando a cercare qualcosa.

«Tu devi essere nuova.» Mi disse ad un certo punto, con una voce al quanto profonda ed indifferente.

Mi sentii scossa da un brivido strano e agitato e mi sistemai istintivamente la lunga gonna rosa a pieghe. Deglutii, mandando giù saliva di troppo e il conato di vomito che, molto probabilmente, avrebbe vinto la battaglia. «Già... tu sei del quarto? »

Tecnicamente avevo sedici anni, non diciassette, perciò il mio dovere era partecipare alle lezioni del terzo, ma essendo nata a gennaio, la scuola aveva deciso di farmi saltare il terzo anno ed iscrivermi direttamente al quarto. L'agitazione era più intensa per questo, molto probabilmente.

Il ragazzo, ormai scoperto, chiuse il suo armadietto e gli sfuggì di proposito uno sbadiglio piuttosto lungo ma silenzioso. Aveva il cappuccio della sua felpa nera sulla nuca coperta da riccioli biondi che intravedevo sulla sua fronte ed era troppo alto rispetto a me. Se l'avessi visto da lontano, avrei pensato: Santo cielo, è totalmente nero. Aveva perfino i jeans e le scarpe nere. L'unico contrasto erano i suoi capelli, ma anche quei splendidi e dannati occhi azzurri quanto le acque dell'oceano pacifico. Nonostante fosse la prima impressione, era logico che fossi rimasta imbambolata da tutta quella bellezza che mi ritrovavo davanti. Il ragazzo, comunque sia, annuì alla mia domanda, incrociando le braccia e fissandomi negli occhi come qualcuno che si stesse interessando della mia situazione. «Sono Travis Bernard.» Sorprendentemente, volle che gli strinsi una mano.

BROKEN | Cercavo di salvarloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora