Capitolo due/ Tisane

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Salimmo da Danalyse, a malapena in grado di camminare per ciò che era successo. Eravamo entrambe di un pallore innaturale, come se fossimo morte noi invece che la donna che costituiva la mia figura materna. Le lacrime mi offuscavano la vista, tanto che a volte rischiavo di inciampare e venivo sorretta da mia zia.
La polizia era appena arrivata per indagare sul caso. Io non volevo che toccassero il corpo di mia madre, ma dovevano purtroppo. Io non potevo, mi sentivo sporca di un errore che non avevo mai commesso. Non ero stata io ad ucciderla, ma avevo in qualche modo favorito quel suo atto ingiusto?
Danalyse mi preparò una sua tipica tisana. Era l'unico modo che aveva per rendersi partecipe a quel dramma, per aiutarmi, superare quel muro che si era creato tra me e il resto dell'Universo. L'aveva sempre fatto, risolvendo tutti i miei problemi e facendomi sentire meglio, ma adesso non poteva fare niente, se non che prepararmi la bevanda che mi piaceva tanto da quand'ero in grado di respirare. Il gusto mi riportò fino a qualche anno fa, quando giocavo allegramente nella periferia insieme a mio padre, un uomo colto e saggio. Ricordo che molte volte passava le giornate nel suo ufficio, a studiare i pensieri di grandi filosofi quali Marx o Kent. Apprezzavo quella stanza della casa, aveva grandi finestre e una biblioteca immensa, mentre la sua scrivania di legno scuro era sempre piena di scartoffie. Amavo osservarlo lavorare in silenzio, mentre giocavo nel mio angolo. Tuttavia, a volte decideva di fare una pausa e venire in giardino con me, dove giocavamo ad acchiapparello in perfetta pace. Amavo quei momenti in cui potevo stare con lui senza i libri e niente che li riguardassero. Ridevamo e giocavamo per pomeriggi interi, osservando il mondo tingersi dei tipici colori del tramonto. All'improvviso mia madre ci chiamava dentro per merenda e proprio la stessa Danalyse ci preparava la sua buona tisana.
Gustandola in un momento del genere, tutto mi riaffiorò alla mente. Anche l'incidente, anche quel camion dritto su di noi.
"Io dove andrò, Lyse?" Chiesi improvvisamente, raccogliendo le gambe intorno al busto sopra al divano verdognolo. La TV era ancora accesa e faceva da colonna sonora ai mille pensieri che mi si affacciavano per la mente.
"Non lo so ancora per certo", rispose sparecchiando le tisane, gli occhi marroni intinti di lacrime. La voce era tremante, come se si stesse per spezzare. "Quel che so è che non puoi stare qui, purtroppo. Non ho niente per mantenerti." Si fermò un attimo, guardandomi negli occhi, e io capii che non mi stava dicendo tutto, così la guardai in modo interrogativo. Lei tentennò un poco, poi proseguì sospirando: "Tuttavia, ho una casa a qualche ora da qua. Ci vivono dei giovani in combutta. S-si dividono l'affitto e le bollette. Se ti mandassi lì, potresti cambiare la vita che stai facendo."
"Come farò a mantenermi? Sai bene che i soldi lasciati da papà stanno finendo", mi preoccupai. Quello era uno dei problemi minori, ma in quel momento non mi volevo concentrare su cosa significasse appieno quell'affermazione. Avrei dovuto lasciare tutto, la scuola, i miei amici... e anche se questo non era un mondo perfetto, mi ero affezionata agli spazi e alle persone che facevano costantemente parte della mia vita. Non sapevo se ero pronta a compiere quel passo. Non ero mai uscita da quella città da quando ci eravamo trasferiti, quando avevo circa sei anni, e adesso avrei dovuto stravolgere la mia intera esistenza e andarmene per sempre?
"Quando finiranno troverai un lavoro, naturalmente", disse mia zia, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. "Ti voglio bene, ma ormai hai diciott'anni. Forse è il momento di prendere il volo, non credi?"
Ero arrabbiata con mia zia. Perché non potevo restare lì con lei? Perché dovevo andarmene con dei perfetti sconosciuti, lasciandomi tutto alle spalle? Me l'aveva annunciato in modo così semplice e conciso che sembrava che non avessi appena perso mia madre e rimasta orfana.
"Lì abita anche mio nipote", aggiunse vedendo che mi accigliavo.
"Il tuo cosa?" Dissi improvvisamente. Un barlume di speranza, seppur minimo, si fece strada nel mio petto. Se quello era mio cugino, almeno avevo ancora qualcuno, oltre a mia zia. Magari avevo trovato chi poteva prendersi cura di me e darmi quell'affetto che mi mancava da quand'ero...
"Nipote", annuì lei interrompendo i miei mille pensieri. "Si chiama Mike. In realtà era il nipote di Andrew."
"Quindi non ho nessuna parentela con lui..." sospirai.
Andrew era il marito si Danalyse, di conseguenza il mio zio acquisito. Era morto per un cancro ai polmoni, e non l'avevo mai conosciuto, purtroppo.
"No, ma so che è un bravo ragazzo. Potrebbe badare a te, almeno per le prime settimane."
Sbuffai. Ora, oltre che andarmene, dovevo anche accettare che qualcuno mi facesse da baby-sitter solo perché mia zia dormisse sonni tranquilli.
"Come vuoi...", sospirai, più per rassegnazione che per altro.
"So che è difficile.", sospirò lei, "Ma-"
Nell'appartamento che non potevo più considerare mio irruppero due poliziotti, interrompendo il nostro scambio.
"Allora signora", disse il primo. Aveva lunghi baffi e occhi verdi freddi e inespressivi. Forse era il suo mestiere ad averlo reso così insensibile. "La donna si è chiaramente suicidata. Lei è...?"
"La sorella", rispose Lyse. "E questa è una mia amica venuta a trovarci che risiedeva con la donna."
Mia zia mi lanciò una chiara occhiata, e io capii. Mia madre non stava molto bene e normalmente mia zia avrebbe dovuto consegnarmi agli assistenti sociali, ma non l'aveva fatto. Alla fine non ero poi stata così male con loro, mi avevano sempre amata, anche mia madre, pur avendo i suoi alti e bassi. Ma la giustizia non avrebbe ammesso quei sentimentalismi al mio riguardo e quel che pensavo non aveva minimamente importanza.
Odiavo tutto quello che la riguardava, tanto che a volte avevo pensato di farmi al comunismo.
"Sapevate che il suo carattere era instabile, non è vero?", chiese il primo accigliato. Chissà se era sposato, o aveva figli. Magari aveva una fidanzata. O magari si sentiva solo.
"Sì. Soffriva chiaramente di depressione.", annuì mia zia, e anche se sapevo che fosse la verità, trasalii comunque a quelle parole. Mi davano fastidio, come una puntura di zanzara che provocava un prurito innaturale.
"Quindi perché lasciare una ragazza minorenne con lei?"
"Io sono maggiorenne", intervenni, alzando la testa. "Ho compiuto diciott'anni qualche mese fa."
Il poliziotto guardò Danalyse, sospettoso.
"So benissimo che la cosa non si risolve qui", disse. "Questa non mi sembra tanto un'amica. Credo piuttosto che abbia un legame di parentela con la donna. Come ti chiami?"
Mi parlava come se avessi tre anni. Lo guardai con disgusto.
"Non sono tenuta a rispondere alle sue domande senza la presenza di un avvocato competente", dissi sfrontata. Sentii che l'altro poliziotto, che era rimasto in silenzio, ridacchiava sotto ai baffi. "Ma comunque, mi chiamo Sun."
"Per il momento, la passa liscia, Danalyse", rispose il poliziotto con fare aggressivo, guardandola con odio. Mi resi improvvisamente conto che i due sembravano quasi conoscersi. "Ma ha avuto a che fare più volte con la giustizia. So perfettamente che un giorno la prenderò con le mani nel sacco. E lì, non mi scapperà."
"Bene, Jack", concluse mia zia sfoggiando il suo più bel sorriso, anche se io che la conoscevo notai subito che era falso."Credo sia ora di andare per lei, no?"

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