1940.
Erano ormai molti anni che stavo ad Orlando, e la speranza di tornare a casa l'avevo persa da tempo.
Mi sarei dovuta abituare alla solita routine, passando da un medico all'altro, tra pillole ed iniezioni, e così feci, mi abituai.
Inizialmente fu uno choc vero e proprio, la mia malattia era ad un livello di pericolo estremo, rischiavo la vita ogni giorno, le crisi erano sempre più frequenti, più forti, e di conseguenza l'aspettativa di vita, per me, non era molto elevata. Sembrava che le cure non mi facessero niente. Questo fu il periodo più depresso che colpì la mia famiglia, ormai se lo aspettavano tutti, da lì a poco sarei morta, ero un cadavere, stesa perennemente a letto, respiravo a fatica e reagivo debolmente. Tutti cercavano di non farmene rendere conto, ma non era molto difficile capire. Mi dicevano che stavo migliorando, "Amore oggi stai meglio", e l'indomani però stavo peggio, come si spiegava questa cosa?
Piangevo nel silenzio della mia camera, ero solo una bambina, ma non volevo lo stesso farmi vedere in quella condizione pietosa.
Come si consola una persona che è già morta?
Poi, non so come, le crisi andarono inaspettatamente a diminuire, fino a raggiungere un po' di stabilità che mi permettesse per lo meno di vivere decentemente.
Stavo meglio, questo fece salire l'umore a tutti, ma non sarei stata mai comunque del tutto fuori pericolo. Le visite in clinica divennero per lo più a scopo di monitorare la mia salute, controllare se tutto procedeva come al solito, evitando il sorgere di una ricaduta improvvisa.
E fu proprio in quel periodo che arrivò una fra le più grandi notizie che abbia mai ricevuto. La mia famiglia si sarebbe allargata, mamma era inattesa della mia futura sorellina, Aurora.
Non stavo un giorno a non ringraziare per la sua presenza, senza di lei, e la sua gioia esplosiva e contagiosa non ce l'avrei fatta. Era una bambina speciale. Grazie a lei riuscii ad andare avanti e passare le giornate con la bocca meno amara.
Sette anni. Ben sette anni dalla fine della mia vita, quella bella, quella "normale". Non me la immaginavo così la mia adolescenza, una diciassettenne non dovrebbe vivere così, una clinica come seconda casa, sconfinata lontano dalla propria città, mi andava bene all'inizio, ma poi mi stancai.
Un giorno di settembre mi era venuta la briga di ficcanasare in giro per casa, e per caso trovai una valigetta impolverata, nessuno la toccava da non so quanto tempo. Mamma osservava ogni mio movimento dalla cucina, feci come al solito finta di niente, e sotto il suo sguardo attento mi rintanai nella mia stanza. Fuori pioveva, andai alla finestra, e tra un colpo di tosse ed un altro chiusi le ante. Era da un po' che il tempo era uno schifo, e ne ero amareggiata non di certo perché in alternativa sarei uscita fuori con gli amici, figuriamoci. Non andavo a scuola, i miei pagavano una professoressa, la signora Cester, per darmi delle lezioni private direttamente in casa. Non la sopportavo, ma non lo dissi a nessuno, perché il motivo era davvero ridicolo. Portava dei capelli corti ed estremamente ricci, la facevano sembrare la testa un nido di uccelli, e alla vista era una vera e propria tortura. Per non parlare della sua voce, era così sottile che, analogamente alla pettinatura, sembrava cinguettasse. Però era brava nel suo mestiere, ci sarebbe mancato. Quindi com'è facilmente presumibile, stando a casa, il mio livello di socialità, senza considerare la signora uccello, e i dottori, era vergognosamente basso. Più volte, anni fa, Corinne riuscì insieme alla sua famiglia a prendere il treno e raggiungermi. Quei pochi giorni furono per me quelli più felici, ma andarono scemando. La lontananza si faceva sentire, e il nostro rapporto si raffreddò, soprattutto con la sua entrata alla scuola superiore, non aveva tempo per venire. L'unica cosa che ci teneva legate erano le lettere che ci mandavamo saltuariamente. Lei mi raccontava di come trascorrevano le sue giornate, che la scuola era bellissima, che aveva conosciuto delle persone pazzesche, di tutti i suoi nuovi tagli di capelli, di come si divertiva. Io le rispondevo "Wow, sono felice per te", e lo ero davvero, nel mentre però pensavo che tutte quelle cose avremmo potuto farle insieme, proprio come ci eravamo promesse secoli prima quando progettavamo le nostre vite, l'una sarebbe stata rigorosamente presente in qualsiasi evento o fase dell'altra. Così sarebbe dovuta andare.
Nonostante la finestra fosse chiusa, riuscivo lo stesso a sentire lo sgocciolare della pioggia e pensai a come a casa, dall'altra parte del mondo, c'era sempre il sole. Mi mancava, la mia vecchia vita, e tutto quello che avrei dovuto fare, e che ho solo immaginato indirettamente, dalle pagine della vita di qualcun'altro.
Misi una delle tante videocassette nell'apposito lettore, lessi nella targhetta "anno 1933", accesi la televisione, e partì un filmino in bianco a nero, riconobbi subito il posto e il giorno. Mi sedetti a terra con le gambe incrociate e la testa alzata, ben attenta alle immagini che scorrevano.
Papà faceva il filmino, dietro di lui si sentivano gli schiamazzi di mia mamma che cercava di non fare troppo rumore, diceva "Secondo te si arrabbierà?". Attraversavano i corridoi della palestra dove praticavo danza, quel giorno si erano messi in testa di sorprendermi per vedermi ballare, dato che io non glielo permettevo mai. La cinepresa ora riprendeva la sala, e immediatamente mamma si zittì, venne messa a fuoco una piccola ragazzina che ballava sola al centro della grande sala. Indossava un semplice body nero e le sue scarpette rosa chiaro, i capelli raccolti in alto con uno chignon. Era totalmente immersa nella musica, tanto che si muoveva ad occhi chiusi, e nonostante questo non sbagliava un passo, era leggera, e armonica in ogni passaggio. Quella ero io.
La musica si staccò, la bambina aprì gli occhi, davanti a sé aveva lo specchio, e come fu inevitabile, si accorse dei genitori che dietro di lei la stavano riprendendo. Come avevano previsto, mi arrabbiai, e rossa dalla vergogna corsi verso loro urlando insulti che non avrebbero offeso nessuno. Le immagini si fecero poco chiare, l'obbiettivo si muoveva velocemente da un lato all'altro, segno che chi lo stesse tenendo stava ora correndo. Si sentirono in sottofondo delle risate, tra cui le mie. Poi il video finì, e come una scema tenevo immobile il telecomando in mano e in faccia uno stupido sorriso.
-Perché ridi? Cosa stai guardando?- mia sorella Aurora fece un blitz in camera mia facendomi prendere quasi un colpo, tenni una mano sul cuore e chiusi gli occhi per riprendermi dallo spavento. -Scusa Niky non volevo, perdonami- disse con la sua vocina caratterizzata da una erre moscia particolarmente buffa, si inginocchiò di fianco a me, accarezzandomi la gamba, suscitandomi una piccola risata.
-Non è niente- mi rimisi in piedi cercando di tranquillizzarla.
-E queste cosa sono?- cominciò a frugare tra le cassette.
-Vecchi filmini. Niente di che, una noia- Ma non mi diede ascolto e premendo un tasto del telecomando si riavviò il video proprio durante la scena che vedeva me piroettare.
-Dai Aurora stacca- mi feci avanti per spegnere la televisione.
-Sei bravissima- affermò fermamente.
La sua frase bastò a farmi vacillare -Lo ero.
-Immagino che lo saresti stata ancora di più, se solo...- sorrise ingenuamente, ma poi capì, e smorzò improvvisamente il suo entusiasmo -se solo...ecco, beh...scusami tanto, non volevo, non ci penso, io...- e mi abbracciò nascondendo la faccia tra le mie braccia.
-Non preoccuparti, non importa- la rassicurai passando le dita tra i suoi capelli ricci.
-Posso dirti una cosa? Non arrabbiarti però.
-Parla pure.
-Tu sei... eri, davvero brava, vorrei tanto diventare come te un giorno- tirò fuori la testa mostrandomi un visino alquanto giù di morale.
-Ma lo sei.
-Non quanto te, io ci tento, do il massimo, ma non lo so- Ironia della sorte anche Aurora da un po di annetti cominciò a ballare, e proprio come me aspirava ad aumentare sempre di più la sua dote, che si dimostrò, per una bambina della sua età, sei anni, non da poco, ma lei non lo capiva. Era così ossessionata che girava per casa con le scarpette da danza per tutto l'arco della giornata.
-Hai ancora un sacco di tempo per migliorare, e poi io ti trovo un fenomeno, sei eccezionale, finiscila di farti le paranoie.
Esitò un attimo, poi mi mostrò il suo sorriso sgangherato e mi strinse un'ultima volta prima di andare via e urlando qualcosa come "ho la sorella migliore del mondo".
Rimisi le cassette al loro posto. Avevo dato una rapida occhiata ad un pezzo del mio passato, e lo avevo riposto, solitamente evitavo di ripensare alla mia vecchia vita, mi faceva male, ecco perché le lettere di Corinne preferivo leggerle da sola nella mia camera dove avrei sfogato le mie lacrime senza farle vedere a nessuno, per questo preferivo non parlare di quei tempi in quella città. Mi faceva stare terribilmente male, un dolore che supera quello fisico.
Mi manca quello che ero.
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Con un cuore di carta
Science FictionL'amore, lo sanno tutti, riesce a farti del bene, ma talvolta è capace anche a ferirti, farti male. L'amore che ho provato è diverso, perché noi siamo diversi. Io volevo amare ardentemente, ma fino a che punto ci si può spingere per amore? Ma quant...