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Passavamo tutto il giorno insieme, andando al supermercato (il nostro territorio neutro) o a casa mia. Parlavamo, ridevamo e fumavamo come turchi.

Volevo sapere tutto di lui, ma, in realtà, lui era un tipo piuttosto riservato: faceva parlare me, e, quando gli rivolgevo qualche domanda, mi rispondeva scherzando.

Non insistevo, perchè temevo (a ragione) che la sua vita non fosse serena quanto la mia.

In ogni caso, la curiosità mi stava consumando.

Un giorno, venne da me con la febbre alta. Bussò piano alla porta, ed io andai ad aprire, contenta.

La mia espressione mutò immediatamente quando vidi le sue condizioni pietose.

Aveva le occhiaie ancor più pronunciate, e se avessi dovuto definire il colore della sua pelle avrei detto "morto".

Era cadaverico.

Mi spaventai da morire (ah-ah), e gli permisi di entrare immediatamente, facendolo stendere sul divano, coperto da un plaid.

Tremava violentemente, quasi come se fosse stato in preda ad una crisi epilettica.

Gli sedetti accanto e gli strinsi la mano, e lui sussurrò qualcosa di simile al mio nome.

Gli accerezzai i capelli sudati, appiccicati alla fronte, e lo coprii con un'altra coperta.

Feci per alzarmi, ma lui mi afferò la mano.

- Charlie. - rantolò. - Non te ne andare. -

Gli strofinai le nocche con il pollice.

- Devo prenderti qualcosa. Medicine. - gli spiegai dolcemente.

- No. - disse. Mi guardò con quegli occhi febbricitanti, e mi strinse più forte la mano. - Non te ne andare. -

Mi rimisi a sedere, impotente.

- Cosa posso fare, Ev? - mormorai.

- Resta con me. - rispose, con la voce sottile. - Per favore. -

Per un secondo, immaginai il suo corpo freddo, morto. I suoi occhi spenti fissi nei miei.

Non potevo vederlo morire.

Non potevo.

Rimasi con lui tutta la mattina. Lui dormì, perlopiù, ma ogni tanto si svegliava controllando se ci fossi ancora, o, nel sonno, pronunciava il mio nome.

Con gli occhi chiusi sembrava molto più giovane, indifeso.

Ed era bello, in una maniera in cui io non sarei mai stata: sembrava un angelo, con la pelle bianca, quasi eterea e i lineamenti perfetti...era qualcosa di irresistibile, quasi ultraterreno.

Non riuscivo a smettere di guardarlo.

All'ora di pranzo mia madre ritornò a casa. Le avevo già presentato Every, e si erano visti qualche volta, ma certo non immaginava di trovarselo febbricitante sul divano.

Le prese un colpo.

- Cos'ha? - chiese, spaventata.

- La febbre alta. - risposi, a voce bassa per non svegliarlo.

- E... -

- Non possiamo fare niente. - la interruppi. - Non so dove abiti, e non ha il cellulare. -

Lei sospirò.

- Every? - chiamò.

Lui non si mosse.

- Every. - riprovò.

- Ev. - dissi, toccandogli i capelli. - Svegliati. -

Lui aprì gli occhi di scatto, boccheggiando.

Aveva uno sguardo terrorizzato.

- Va tutto bene. - lo rassicurai.

Gli accarezzai la guancia, e lui sospirò.

- Ev. - dissi, il più dolcemente possibile. - Devi dirmi dove abiti. -

Non rispose.

- Per favore, Ev. Puoi farmi questo favore? Devi soltanto darmi un indirizzo. Il tuo indirizzo. Per favore. -

Lui sospirò, di nuovo.

Era molto più lucido di prima, e questo lo portava a proteggersi da me, o forse proteggermi dalla verità.

In ogni caso, indugiava.

Probabilmente, stava decidendo se rischare di morire o farmi entrare nella sua vita.

All'epoca questa scelta mi sembrava ovvia, ma per Every non lo era affatto. Non aveva mai permesso a qualcuno di conoscere tutti i lati di lui, di conoscerlo così bene, e per lui era difficile, fottutamente difficile.

- Ti prego. - insistetti.

Lo guardai negli occhi, e lui cedette.

La "sua" casa era enorme.

Più che una casa, era un palazzo.

C'era una sorta di edificio centrale, e due ali ai lati, e l'ingresso era una specie di enorme portone di legno scuro.

"Casa famiglia" lessi.

Bingo.

Bussai alla porta, impaziente.

Dopo qualche secondo, mi venne ad aprire una ragazza bionda che doveva avere all'incirca la mia età, forse qualche anno in più.

- Sì? - disse, sgarbatamente.

Sembrava piuttosto seccata.

- Every non sta bene. È con me. -

- Every? - chiese, stupita.

- Every. - ripetei. - Ha la febbre. -

- Dov'è? - rispose, impallidendo.

- In macchina. - dissi, indicando vagamente alle mie spalle.

Lei mi superò, e corse incontro alla mia auto.

Aprì la portiera, ed emise un urletto.

La raggiunsi.

- Nat. - sentii dire da Every. - Sto bene. -

- Oh, benissimo. Lo vedo. - rispose lei, acida.

Si allungò su di lui, e lo tirò fuori dalla macchina.

Lui incespicò per qualche secondo, ma riuscì a riacquistare l'equilibrio appoggiandosi a lei.

Poi disse:

- Charlie. -

Fui immediatamente al suo fianco.

Mi mise un braccio intorno alla vita, e appoggiò la fronte alla mia tempia. Era ancora caldissimo.

Me la baciò, e disse:

- Grazie, gattina. -

Poi si staccò da me, lasciandomi sola in mezzo al prato.

L'avrebbe fatto ancora tante volte, prima di lasciarmi entrare completamente.

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