6.

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Nei giorni successivi, i miei pensieri potevano essere tradotti in una parola:

Every.

Che, praticamente, signicava che ero confusa.

Ormai, nella mia mente, Every aveva assunto contorni sfocati. Era bipolare? Lunatico? Con uno spiccato sdoppiamento di personalità? Era normale, ma non gli piacevo?

Quest'ultima, in realtà, era l'opzione meno accreditata. Perchè a) non potevo credere di non piacergli. Dovevo piacergli. Ormai la mia vita si basava sul fatto che dovevo piacergli, almeno un po'. E b) Every era strano, su questo ero sicura. Non avevo mai incontrato una persona come lui.

E questo era poi anche il motivo per cui non sapevo come comportarmi.

Every mi piaceva. Ero attratta da lui, sia fisicamente che a livello più spirituale.

Ma per me era un mistero.

Non lo capivo, e questa cosa mi dilaniava.

Il punto è che, anche se non me ne rendevo conto, volevo conoscerlo.

Meglio di chiunque altro.

Meglio di quanto si conoscesse lui stesso.

Perchè, in fondo, era un modo di possederlo.

Fu Every a venirmi a cercare, esattamente una settimana dopo l'infelice telefonata con cui mi aveva mollata-o-forse-no-perchè-comunque-non-stiamo-insieme.

Bussò alla mia porta in un'assolato (ovviamente) tardo pomeriggio.

Ero in casa da sola e stavo guardando la tv, in mutande e top, mentre pensavo a lui.

Saltai in piedi al suono di una nocca sul legno, e corsi in camera mia per mettermi addosso qualcosa, urlando:

- Arrivo! -

D'estate, quando faceva così caldo, non potevo che starmene immobile, stesa da qualche parte, con il minor numero di indumenti possibile.

Scesi giù per le scale infilandomi la canottiera, ed aprii.

Quando lo vidi, fermo sulla soglia, così dolorosamente fragile, così dolorosamente bello, mi bloccai.

Lui mi osservò in silenzio, partendo dai piedi e scivolando sempre più su, fino ad incontrare i miei occhi.

Studiai la sua espressione, la piega della sua bocca, il modo in cui i capelli gettavano ombre inquietanti sul suo viso.

Poi disse:

- Charlotte. -

No, non lo disse: lo mugolò, mugulò il mio nome, come mugula un animale ferito. Tuttavia non era un piagnucolio. Era il ruggito di un condannato ingiustamente, l'ultimo verso di un'essere maestoso.

Nel modo in cui pronunciò il mio nome, lessi un bisogno cocente, il mio stesso bisogno che si rifletteva in lui, aggiungendosi al suo.

Qualcosa nacque nel mio petto, una specie di rombo appena contenuto, aggressivo, vibrante.

Lo sentì anche lui, e sussurrò di nuovo il mio nome, come se gli mancasse l'aria ma dovesse dirlo per forza, all'infinito, all'infinito.

Feci un passo avanti, e sentii un dolore sordo al petto, ad ogni vena in cui scorreva il mio sangue bollente. Un dolore bruciante, che cresceva ad ogni istante che passavo lontana da lui, che fosse anche soltanto di un centimetro.

A quel punto, lui si sporse in avanti e mi afferrò la nuca, violentemente. Le sue labbra toccarono le mie, e gemetti. La sua bocca era fredda, quasi gelata. La sua lingua toccò la mia, e mi premetti contro di lui, le mani nei sui capelli. Lo tirai piú vicino, più vicino.

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