Parte Prima

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Le luci al neon mi sfrecciano attorno, mentre proseguo la mia corsa precipitosa.
Mi vedono. Vado avanti senza voltarmi.
Il latrato dei cani mi raggiunge, e con esso le grida delle guardie. I lamenti dei malati nelle celle che mi circondano crescono d’intensità, fino a diventare urla lancinanti. La porta è a pochi metri da me. Tiro fuori le chiavi dalla tasca frettolosamente, arrestando l’impeto solo per un istante. Finalmente c’è uno scatto e dopo tanto tempo sento la pioggia sul mio viso. Lo scroscio del temporale accoglie l’ultimo atto della mia fuga.

Inciampo nel fango, ma riprendo la corsa sconclusionata, il fiatone mi offusca i sensi. Non riusciranno a prendermi. Attraverso il vasto cortile del manicomio, con le voci dei miei inseguitori sempre più vicine. Stanno mobilitando le auto, se non mi sbrigo a entrare nella boscaglia non avrò più speranze. Non ho più energie, il sangue mi pulsa nelle tempie… spalanco il cancello principale con un calcio e mi tuffo tra i cespugli. Corro a perdifiato per venti minuti buoni, frustato dai rami e dagli sterpi, prima di gettarmi finalmente a terra, stremato. Tirando un sospiro di sollievo, finalmente, assaporo il senso di libertà.

Dopo una breve pausa, mi alzo e mi rimetto in cammino. In fin dei conti sono ancora braccato. Devo passare il confine e potrò veramente iniziare una nuova vita e lasciarmi alle spalle quella casa degli orrori di Winnenthal.

۲

Nella mia vita non ho mai viaggiato molto. Il mio paese è chiuso: non vogliono che la gente entri o esca, tutto deve restare esattamente come l’hanno trovato. Non dirò che la mia vita fosse dominata dalla paura, né che fossero i Campi Elisi. Non dirò neanche se abitavo nella Germania Est o Ovest, perché non influisce sulla mia storia. Ho sempre detestato questa divisione, mi sembrava assurda. Formalmente, il muro di Berlino era stato eretto per evitare che atrocità come quelle compiute da Hitler si ripetessero, ma secondo me non ha senso incolpare il figlio delle azioni del padre. Anche noi tedeschi avevamo subito il nazismo, e ci aveva fatto soffrire come a chiunque altro. Ed ecco che, mentre per tutti gli altri la fine della guerra era qualcosa di magnifico, ai miei connazionali veniva inflitta una punizione che solo una piccola parte meritava, inducendoli addirittura a rimpiangere i tempi dei nazisti. O quanto meno, a odiare gli alleati. Pian piano, la Germania divenne ospite di qualcosa, se non di terribile quanto il Reich, comunque di nauseante.  La gente se ne stava zitta e subiva, covando dentro di sé un odio incolmabile.  Mentre un tempo la rabbia dominava gli animi, ormai restava solo un senso di disgusto e di sconsolata rassegnazione.  

Io sono nato in questo clima, ho studiato e sono cresciuto come tutti i miei coetanei; solo che, a differenza degli altri, io non accettavo la situazione. Ripudiavo con tutto il mio cuore il nazismo, ma non avevo intenzione di sottostare allo status quo. Ero stato abbastanza folle da sperare in un lieto fine, da pensare che bastasse volerlo, per cambiare le cose.  E per i folli ci sono degli edifici fatti apposta.

Forse, ora sarebbe il momento di parlarvi del mio “disturbo”. Perché non avrebbero mai potuto rinchiudermi in un manicomio se non avessero avuto un pretesto, e ce l’avevano eccome.
Da quando sono nato, non ho mai fatto un sogno. Ogni notte, inevitabilmente, ripeto tutto ciò che mi è successo il giorno prima. Non sono sogni, è tutto estremamente realistico. È proprio come se vivessi due vite parallele, una identica all’altra.  Nel momento in cui mi addormento, mi sveglio e ripercorro tutto ciò che è successo, senza poter modificare nulla. Senza accorgermene compio le stesse scelte, provo le stesse emozioni, mi stupisco di cose che ho già vissuto. Non c’è alcuna differenza tra le due vite, tranne il fatto che una venga prima e l’altra dopo. La prima vita potrebbe persino essere un sogno premonitore. Ho una testa bella incasinata, eh?
E così, sono finito in quella casa della follia. Mi hanno imbottito di pastiglie di ogni forma e dimensione. Per mesi sono rimasto in dormiveglia, avevo allucinazioni e voci nella testa. Ho sviluppato decine di fobie e disturbi mentali diversi, tutti affrontati con prontezza ed efficienza dai dottori. Questi curavano le malattie come avrebbero riparato una barca che affonda: chiudendo le falle usando legno strappato dalla barca stessa.
È difficile descrivere la vita in un manicomio. Tutto, a cominciare dalla routine per finire col colore dei pasti, porta alla pazzia. È come se le menti dei “ricoverati” venissero compresse dentro una scatola per far prendere a tutte la stessa forma, con il solo risultato di schiacciarle e deformarle rendendole ancora più anormali.  

Due pasti al giorno, cinque ore di terapia psicologica, quattro di terapia farmaceutica, dodici di reclusione e una d’aria, nella quale saremmo stati troppo drogati anche solo per parlare tra di noi. E ovviamente per terapia psicologica non intendo qualcosa di rose e fiori come un paziente sul lettino che racconta e un dottore seduto che annuisce e fa disegnini, ma qualcosa di molto più terrorizzante. Terapie d’urto. Di paura. Per i più sfortunati, esperimenti. Secondo le leggende, torture. Non ci ho messo molto a decidere di scappare da lì.

Il piano fu molto complesso e molto poco interessante, i miei complici non abbastanza misericordiosi da non chiedere nulla in cambio dell’aiuto che mi fornivano e le ricerche di ciò che desideravano, come nastri adesivi e denaro, lunghe ed estenuanti. Alla fine, riuscii ad avere le chiavi del portone principale e della mia cella, il cancello aperto, le guardie allontanate e le telecamere spente.

Era ora di scappare.

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