Parte Terza

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Senza rendermene conto, rivivo tutto ciò che mi è successo negli ultimi due giorni, notte dei patimenti inclusa. Si vede che, quando non dormo, il “reset” parte dalla volta prima.  

Appena mi sveglio, prima ancora di aprire gli occhi, la prima cosa che noto è l’odore. Il profumo di una casa. Il profumo che sussurra “ora sei al sicuro.” Il profumo della felicità.
Subito dopo, sento il calore sulla pelle. Il piacere di un focolare vicino.
E poi, il gusto di stare sdraiato su un divano vero, morbido e liscio. Sorrido e apro gli occhi. Sono in un salotto dalle pareti di un accogliente giallo arancio, con un umile tavolo di legno e un divanetto davanti al camino scoppiettante. Un semplice tappeto verde ricopre il pavimento. Fuori dalla finestra, la pioggia ticchetta sui vetri.

- ’Giorno - dice il vecchio, seduto al tavolo, intento a gustare la sua colazione. Colazione! Del cibo vero!
Provo ad alzarmi di scatto e a precipitarmi a tavola, ma il corpo non risponde. Fitte di dolore mi attraversano dappertutto.  La mia bocca emette solo uno sgarbato - Buongiorno -, inappropriato alla gentilezza che quest’uomo mi ha riservato.
Il vecchio si dirige verso di me e mi aiuta a trascinarmi su una sedia.

- Allora, piombi in casa mia nel cuore della notte, ti fai ospitare da me (ah, sì, serviti pure) - a queste parole inizio ad ingozzarmi come una bestia - e nemmeno mi dici il tuo nome? -
Con la bocca piena, biascico:
- Ifaah. -
- Molto bene. Isaac, io sono John Goldfinger. -
- Piafere. -

Mentre divoro voracemente tutto quello che mi viene messo davanti, l’uomo mi osserva burbero. Credo che stia valutando se sbattermi fuori o meno.
Oddio… cibo! Sto mangiando dei croissant! Dei pretzel! Ancora con la bocca piena, scoppio a piangere. John mi guarda perplesso. Gli prendo le mani, mentre il cibo viene bagnato dalle lacrime e la vista annebbiata.
- Graffie. Dahhero. - Deglutisco e lo guardo negli occhi, singhiozzando.
- Mi ha salvato la vita. -

Finita la colazione, che mi pare più abbondante di mille pranzi, Goldfinger mi invita a sdraiarmi sul divano, consiglio che seguo seduta stante. Affondo tra i cuscini di pelle, assaporando ancora per un lungo momento il piacere del cibo fresco e del letto morbido. Mentre attizza il fuoco con un mantice arrugginito, sporgendosi dalla poltrona, John inizia a parlare con noncuranza.

- Sai, ci ho pensato molto, prima di farti entrare. Le bestie di Winnenthal non hanno una bella fama, da queste parti. -
Mi si gela il sangue nelle vene. Oh no. No, no, no. Lui sa. Ho abbassato la guardia, mi sono lasciato incastrare! Con il cuore che batte come un treno, cerco di alzarmi e fuggire via, ma il mio corpo non risponde. L’anziano signore interrompe di nuovo il mio flusso di coscienza.
- All’inizio ti ho fatto dormire in una stanza chiusa a chiave, ma poi ho capito che non sei una minaccia. Per questo, quando sono venuti a controllare se eri qui, li ho mandati via. -

Il peso sul cuore inizia a scemare e i battiti a normalizzarsi, mentre mi rendo conto del falso allarme. Quest’uomo è un mio alleato.
Il resto della giornata trascorre piacevolmente, un minuto dopo l’altro, scandita dal racconto della mia vita. Goldfinger annuisce, e ogni tanto fa qualche domanda. I suoi occhi mi scrutano seri ma benevoli. All’inizio non crede alla storia dei sogni, ma pian piano, soffocando una risata, si abitua all’idea.
La doccia allevia tutti i dolori dei giorni precedenti.
Arriva la sera e con essa tornano i miei inseguitori. Il vecchio permette loro di fare una breve perquisizione, dopo avermi nascosto in una botola sotto il tappeto, e li caccia via.
Dopo cena mi fa accomodare nella stanza degli ospiti, un cantuccio spoglio ma accogliente.
Mi sdraio sul letto, felice come non lo sono mai stato, e piombo nel sonno pronto a ripetere il giorno più bello della mia vita.

۲

Appena mi sveglio, prima ancora di aprire gli occhi, la prima cosa che noto è l’odore. Un forte fetore di fango ed erba bagnata. Subito dopo, il freddo umido di una nottata di pioggia. E poi, il dolore di aver dormito sulla dura terra, senza un riparo. Mi alzo in piedi sconcertato. Tutto questo è assurdo, io… dovrei rivivere il giorno appena passato. E questo chiaramente non è il giorno appena passato. Il gelo mi penetra fin nelle ossa, e mi accorgo di essere ancora sotto il diluvio. Faccio fatica a muovere i muscoli e a camminare, ma devo sforzarmi.

Sono sul retro della casa del vecchio John, in quello che pare un cortile. Mi chiedo come abbiano fatto le guardie a non trovarmi. Non so neanche come faccio a sapere già il nome del proprietario. Mi trascino fino all’uscio e busso. Nessuna risposta. Batto più forte e aspetto. Dopo un minuto, mi metto a gridare.

- John! JOHN GOLDFINGER! La prego, apra! Ho bisogno di aiuto! -
Una voce arriva sommessa dai meandri della baita.
- VA’ VIA! Non so neanche chi sei! -
Appoggio la fronte alla porta, sconsolato e infreddolito. Qualcosa nella mia mente deve essere andato terribilmente storto.

Mi trascino per qualche altra ora sotto il temporale, e quando penso di dover passare la notte nella foresta, scorgo una casupola fatiscente. L’interno è decadente e spoglio, e i pochi mobili rimasti sono messi a dura prova dalla polvere e dall’umidità. Un comò mangiato dalle tarme, un divano con le molle a vista e un armadio senza ante. Qui appoggio i vestiti fradici, mi rannicchio su quel che resta di un tappeto e mi addormento. Le voci, più forti che mai, e l’astinenza dalle droghe del manicomio si fanno sentire.

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