Parte Sesta

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Mi sveglio alle stazione del paesino poco lontano da Berna dove mi ha portato il treno. Qualcuno deve avermi portato lì, dopo l'orario di chiusura. Non c'è traccia di spari o inseguimenti, e la sofferenza del giorno prima mi sembra solo un ricordo sfocato. Mi sembra quasi di non averla vissuta io. È appena l'alba, e manca poco a Berna. L'ultimo ostacolo che mi manca da superare sono i posti di blocco che i servizi segreti tedeschi potrebbero aver piazzato in questi pochi chilometri. Mi alzo svogliatamente dalla fredda panchina sulla quale ero adagiato e vedo qualcosa, o meglio, qualcuno, che non mi piace per niente. È come un deja vu: Janna, la "psicologa" del manicomio, si guarda intorno circospetta.

Vado dalla parte opposta con calma senza rivolgerle il volto. Sembra non mi abbia riconosciuto: John ha fatto un ottimo lavoro. Comunque, per evitare problemi, mi defilo. È una giornata nuvolosa, ma calda, ed io sono sereno. Più avanti vedo ciò che mi fa venire l'idea su come entrare a Berna: un tombino. Attraverso le fogne potrò arrivare fino al centro della città indisturbato. Alzo la pesante tavola di ghisa, mi ci infilo sotto e la richiudo. Scendendo le scalette, sento il tanfo acre dei condotti entrarmi nelle narici. La lunga rete di cunicoli si diparte in ogni verso, ma so in che direzione andare.

Nessuno mi ha seguito qua sotto, così proseguo con calma nel dedalo di scarichi verso la città, da dove arrivano i tunnel più ampi. Dopo qualche chilometro ritorno in superficie. Le luce del giorno mi abbaglia la vista. Sono nel centro di Berna. Passanti distratti mi passeggiano intorno. Ce l'ho fatta. Sono libero. Sono salvo. Sorridendo sfinito dagli ultimi mesi della mia vita, mi lascio cadere dolcemente a terra.

۲

Il buio. Sento dolore, freddo, umido, e mille tarli divorarmi le interiora. Ancora l'immagine di quegli occhi spenti è impressa nella mia mente. Come ho potuto? Come?

Non voglio più alzarmi. Non voglio più combattere, non voglio più vivere.

Devo trovarmi da qualche parte a sud, troppo lontano da qualsiasi città in cui rifugiarmi. Da Zurigo, vengono i miei inseguitori. Per Berna, ormai, la strada è sbarrata. Più a sud, mi bloccano le alpi. Non ho più un posto in cui andare.
Ci sono solo montagne e colline in tutte le direzioni. La giornata è uggiosa, triste, e gli alberi contorti sono uno specchio delle mie emozioni.

Mi torna in mente la frase di John al suo addio: "Vivi."

Mi faccio forza, e lentamente risalgo sull'auto scalcinata del giorno prima. Vago, senza più una meta, con tutti i rimorsi, i malori e la stanchezza degli ultimi mesi. Presto finisce la benzina, e mi ritrovo a camminare solo per un sentiero. Ho perso tutto, persino la rabbia nei confronti di chi a portato a tutto questo. Le valli e i crinali si susseguono uno dopo l'altro ma continuo a camminare. Continuo anche dopo che le scarpe bucate si rompono definitivamente. Perché è l'unica cosa che mi resta da fare.

۲

Mi sveglio in una stanza d'ospedale completamente bianca, con una flebo nel braccio. Un uomo anziano, con dei folti baffi grigi, mi guarda sorridendo. È vestito come i miei aguzzini a Winnenthal, e ciò mi turba parecchio, ma sono abbastanza lucido da non mostrarlo. L'uomo mi stringe la mano, parlando in un tedesco dal forte accento francese.

- Ben svegliato, signore. Dormito bene? È stato molto fortunato, sa? Aveva una bruttissima influenza, qualche osso rotto e svariati altri problemi fisici. Cos'ha passato negli ultimi mesi? -

È proprio logorroico. Comunque ho imparato la lezione, stavolta non mi tradirò.

- Grazie infinite, dottore. Ho avuto dei grossi problemi in famiglia. Nelle ultime settimane, ho viaggiato a piedi e senza riparo. -

Il medico si congeda stringendomi di nuovo la mano. Domani, dice, potrò lasciare l'ospedale. Stanco e felice, mi riaddormento.

۲

Stavolta è notte. Una buia, tetra, notte piovosa. Appollaiato su un albero, guardo un punto fisso su di esso. Come era prevedibile, gli uomini mi hanno trovato. Vedendo i nerboruti militari e gli uomini in camice marciare verso di me, sento tutta l'oscurità che mi divora dentro fuoriuscire. Disperato, esasperato e senza via di fuga, mi metto a gridare:

- Ma che bravi! Mi avete trovato! ORA PRENDETEMI! -

Salto giù dall'albero, senza più preoccuparmi delle ferite che mi procuro e delle ossa che mi rompo, e corro via, e mentre corro urlo, grido a squarciagola tutta la mia sofferenza.

Non vedo niente, ma sento tutto, la rabbia, il dolore e la tristezza, e me stesso, mentre grido senza parole ma con mille significati. Sbuco in una radura scoscesa e mi accascio sulle ginocchia, piangendo. Sono un pazzo, un ladro e un assassino. Mi è capitato tanto male e ne ho fatto altrettanto. La pioggia e le lacrime, il salato e l'acido, si mischiano. La mia voce si fa strozzata e affievolisce sempre di più, mentre i pugni stringono la terra. E già vedo Janna arrivare, con tutta la sua branca di manigoldi che nessuno fermerà mai.

Il capolinea mi si abbatte addosso e scorgo, offuscata come da strati di nebbia, la mia altra vita, il me stesso addormentato nell'ospedale. I due mondi si mischiano, e vedo i miei due io concludere la loro storia. Uno urlando disperato sotto una notte di pioggia, l'altro felice, pronto a ricominciare da capo. Libero.

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