Capitolo 15

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La luce soffusa della luna piena filtrava appena dalla finestra semi aperta. Le ombre degli oggetti illuminati dalla sua pallida luce si allungavano fin sul soffitto. La stanza era completamente immersa nel silenzio. Solo i nostri gemiti ed i nostri profondi respiri riuscivano a spezzare quell'incanto. Ero sdraiato sul letto e Gabriele mi torturava le labbra di baci. Eravamo completamente nudi e sudati. Gabriele si inginocchiò davanti le mie gambe divaricate ed io posai entrambe le mani sul suo petto, tracciando un linea lungo i suoi muscoli tesi. Afferrò entrambe le mani e me le portò al di sopra della testa. Intrecciò le dita con le mie. Gemetti più volte ad ogni sua spinta, mentre le sue mani scivolavano leggere lungo le mie braccia. Si chinò su di me e mi baciò ancora le labbra. Intanto le sue dita si posarono leggere sul mio collo. La presa però si fece sempre più stretta. Cercai con entrambe le mani di scacciar via le sue dal mio collo, ma non ci riuscii. Mi mancò il fiato. Sempre di più. Gli occhi di Gabriele erano rossi dalla rabbia, mentre stringeva sempre più la presa sul mio collo. Dischiuse le labbra e mi chiamò «Daniele... Daniele...»

Mi svegliai madido di sudore. Respirai a fatica e tossii più volte. Incrociai gli occhi di Gabriele, che seduto accanto a me sul letto, mi guardava perplesso.

«Brutto sogno?» mi chiese, accarezzandomi la schiena nuda dolcemente. Aveva dormito con me la notte dopo il chiarimento. Ero felice di vederlo accanto a me, anche se il sogno appena fatto mi inquietava e non poco.

«Si... si...» accarezzai la gola, ma non sentivo dolore.

«Cos'hai sognato?» mi chiese Gabriele, poggiando il capo sulla mia spalla, abbracciandomi e tirandomi a sé.

«Nulla d'importante... sono caduto nel vuoto...» farfugliai una scusa. Non ebbi il coraggio di rivelargli il mio sogno. Perchè continuavo a fare quei sogni su Gabriele? Non mi fidavo di lui? Avevo però deciso di credergli e volevo solo voltare pagina. Volevo andare avanti, con lui, con la nostra relazione.

«Mi spiace...» disse soltanto e si staccò dall'abbraccio. Si alzò e s'infilò i boxer neri, che erano poggiati sulla sedia ai piedi del letto. «Preparo del caffè. Ne vuoi un po'?» mi chiese sorridendomi. Annuii e contraccambiai quel sorriso, come meglio potei fare. Ero ancora turbato dal sogno. Non mi disse nient'altro e si affrettò ad andare di sotto in cucina.

Spostai il lenzuolo con un colpo secco e, voltandomi appena, poggiai entrambi i piedi per terra. Perchè mi sentivo così inquieto? Solo per un sogno? Mi sollevai dal letto e mi trascinai a fatica verso il bagno. Il mal di testa si faceva sempre più fastidioso e dolorante. Mi guardai allo specchio ed il mio viso sembrava sconvolto. Aguzzai la vista e c'era qualcuno dietro di me. Un'ombra dapprima, poi il suo viso mi fu famigliare. Mia sorella. Scattai e mi guardai indietro, ma non c'era nessuno. Anche dallo specchio la sua figura era scomparsa. Poggiai entrambe le mani sul bordo del lavandino e scossi piano il capo. Cosa mi stava succedendo? Stavo impazzendo? Notai, poi, per terra un fogliettino. Lo raccolsi e vi lessi sopra il nome della psicologa, che mi aveva consigliato il dottore all'ospedale. Forse era arrivato il momento di parlarle. All'improvviso Gabriele bussò alla porta del bagno, facendomi sussultare.

«Daniele, tutto bene?» mi chiese rimanendo fuori dalla porta.

«Si, tutto bene...» lo rassicurai «Cosa c'è?»

«Ho preparato la colazione... ti va di farmi compagnia?»

«Si, arrivo tra un momento...» sentii i passi di Gabriele allontanarsi. Strinsi nella mano il bigliettino, sempre più convinto di volerla chiamare.

*   *   *

Fissai un appuntamento dalla psicologa, la dottoressa Paola Signorile. Dopo due giorni mi recai al suo studio con la moto. Mi sentivo così libero quando ero in sella. Mi sentivo così bene, tanto che ogni problema diventava insignificante. Sfrecciai per le strade, superando le auto a gran velocità. In poco meno di mezz'ora arrivai in città, dinanzi lo studio della dottoressa.. Parcheggiai la moto e mi tolsi il casco. Mi ritrovai di fronte ad un palazzo antico, piuttosto basso, con soli quattro balconi che sporgevano dalla facciata color avorio, restaurata a nuovo da poco tempo. Mi avvicinai al citofono e, scorrendo fra i soli quattro nomi, pigiai il pulsante con il nome della psicologa. Una voce squillante mi indicò di salire al secondo piano. Obbedii e, dopo due rampe di scale, spalancai la porta già aperta. La ragazza dalla voce squillante era in realtà la segretaria della dottoressa, si chiamava Sofia e mi disse che a breve la dottoressa mi avrebbe ricevuto. Mi accomodai sul divano di pelle marrone, abbandonando accanto a me il casco della moto. La segretaria riprese il suo posto dietro la scrivania e, più o meno, ogni minuto circa mi guardava e mi sorrideva. Cercai di contraccambiare quei sorrisi, ma la tensione che sentivo m'impediva di essere del tutto naturale.

Dopo poco meno di dieci minuti, una donna dall'aria severa aprì la porta e uscì dallo studio. Indossava un tubino nero, che ne metteva in evidenza le curve, dei tacchi altissimi, a mio parere molto scomodi, ma che slanciavano le sue gambe affusolate. I capelli biondi erano raccolti in una crocchia spettinata sulla nuca. Salutò l'uomo che uscì dopo di lei con una stretta di mano ed un sorriso di circostanza e, subito dopo, volse l'attenzione verso di me. Mi alzai dal divano e, raccogliendo il casco, le andai incontro. Le strinsi la mano e ci salutammo. La seguii all'interno dello studio, mentre con la mano libera mi lisciai la camicia blu scuro che indossavo e i jeans blu chiaro. Mi fece accomodare su un divano rosso a due posti, mentre lei si accomodò nella poltrona dello stesso colore, di fronte a me. Lo studio era molto luminoso e aveva un arredamento minimal. Una libreria colma di libri, una scrivania con un solo porta foto in argento, un computer portatile richiuso. Le pareti chiare erano piuttosto scarne. In un angolo della stanza era appesa la pergamena di laurea, posta in una cornice dorata.

«Sono la dottoressa Paola Signorile, sono molto contenta che si sia rivolto a me e spero di poter esserle d'aiuto» si presentò con lo stesso sorriso riservato al paziente precedente.

«Molto piacere di conoscerla. Spero anch'io di poter risolvere la mia situazione».

«Signor Alberighi...» la interruppi immediatamente.

«Mi chiami Daniele, lo preferisco...» nonostante fosse passato tanto tempo, non riuscivo a riconoscermi nel cognome della mia famiglia. Era come se non mi appartenesse ed io non appartenessi a quella famiglia.

«Bene, Daniele... vorrei conoscerla e sapere cosa le è successo...» una richiesta più che legittima, ma avevo ben poco da raccontare, dato che i miei ricordi iniziavano dal mio risveglio in ospedale. Le raccontai dell'incendio, di come Claudia, la mia migliore amica mi avesse detto chi ero, di Simone, che mi era stato vicino, del mio ritorno alla villa dopo due anni. Quando toccò a Gabriele entrare nel discorso, mi bloccai bruscamente. La dottoressa parve accorgersene, ma non indagò, almeno per il momento non lo fece. Sapevo bene che saremmo arrivati a quella questione e, chissà, come avrebbe reagito alla mia omosessualità.

«Non ha recuperato nessun ricordo prima dell'incidente?» mi chiese, interrompendo il flusso dei miei pensieri.

«Non molto. Ho ricordato il viso di mia madre, la sua torta di mele. Ho racconti frammentati riguardo mio padre e mia sorella...» abbassai lo sguardo e continuai a parlare «L'ho... ricordata bruciare fra le fiamme... non so se fosse un ricordo vero e proprio oppure frutto della mia immaginazione, ma sembrava così reale...».

Le raccontai di come non avessi ancora avuto il coraggio di aprire la porta della sala da pranzo, dove si era scatenato l'incendio, ma che avevo rimesso a nuovo tutta la villa. La dottoressa annuiva e di tanto in tanto mi poneva qualche domanda. Sentii la tensione sciogliersi in breve tempo. Quella donna, seppur avesse un'aria severa, sapeva come mettere a proprio agio chi le stava di fronte.

«Vorrei ricordare di più, ma ogni volta che ci provo vengo assalito da dolori alla testa e vertigini, che mi fanno stare male...»

«Capisco... sembra che voglia inconsciamente reprimere qualche ricordo spiacevole. E' così che si sente?» mi chiese, unendo entrambe le mani e posandole sulle gambe accavallate.

Annuii silenzioso. «Mi sembra di... non appartenere a questa realtà...» le dissi in un moto di sincerità.

«Si spieghi meglio» mi incalzò lei.

«Non ho ricordi del mio passato, so soltanto quello che gli altri mi hanno raccontato. Mi sembra di vivere la vita di un altro. Un Daniele che non conosco, che non sono io. Non so chi sono...» 

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