Lunedì. Scommetto che sapete benissimo cosa provai quel mattino. Scommetto che è quello che provano tutti ogni giorno.
Quando un filo di luce riesce a farsi spazio tra le tendine della camera, fino a raggiungerti. Quel tanto che basta per svegliarti dai sogni, per riportarti alla realtà. Ci rifiutiamo di accettarlo e ci giriamo dall'altra parte, fingendo che il momento non sia ancora arrivato. Tutto è più bello quando si dorme, perché siamo noi a creare e a decidere. Abbiamo il controllo completo su qualsiasi cosa e nessun limite. Se per caso sbagliamo, o ci capita di vivere qualcosa di brutto, di aver paura, o di farci male, basta svegliarsi e tutto si cancella.Quindi continuiamo a rigirarci nel letto, eppure sappiamo benissimo che è l'ora di abbandonarlo.
Ecco come mi sono sentita quella mattina, esattamente come tutte le altre. Nessuna curiosità di sapere cos'avrebbe avuto in serbo per me la giornata, perché sarebbe stata la solita.Scesi le scale controvoglia e andai in cucina.
Avevo gli occhi stropicciati, i capelli arruffati, il pigiama con i pinguini e un gran ritardo che dovevo assolutamente evitare. Ne avevo già fatti troppi quest'anno e iniziavo davvero a sentirmi in colpa.
Mi precipitai fuori di casa. Troppo freddo.
Tornai indietro, afferrai la prima felpa che mi capitò fra le mani e riuscii. Era rossa e pensai che non si abbinava per niente alla maglia che avevo.
Non è vero. Non pensai a nulla, ero troppo in ritardo per farlo.
Era marzo, quell'odioso mese in cui fa sempre o troppo freddo o troppo caldo rispetto a come sei vestita. Il mese in cui, chi più e chi meno, diventiamo meteoropatici. Perché è frustante doversi alzare e nonsapere cosa c'è fuori dalla finestra. In estate, sai che probabilmente vedrai il sole e in inverno il cielo sarà grigio. C'è la certezza e la stabilità che piace a tutti, che però io considero banale. Sì, perché a me marzo piace. Mi piace la sua imprevedibilità. Non è mai come te lo aspetti e nel bene o nel male, sa come stupirti. Forse è l'unica cosa ancora in grado di farlo.
Andai in garage per prendere la vecchia bici mezza scassata che ogni giorno riusciva miracolosamente a portarmi a scuola. Bastava un tocco e la catena cascava, il campanello non funzionava, le luci non c'erano e vari punti erano vestiti di ruggine.
Montai, misi gli auricolari e spinsi il pulsante 'play'. Ecco, in quel momento stavo bene.
Pensai a quanto eravamo fortunati ad avere la musica e a potercela portare sempre in giro. Quella era un'altra delle cose che rientravano nella mia lista delle "non banali". Perché ci sono infinite combinazioni di note, ritmi, timbri, tonalità e tutto il resto. Un po' come le parole: anche quelle sono infinite. Il problema è che ormai la gente non le sa più usare. Alla semplice domanda "Come stai?" si potrebbe rispondere in migliaia di modi diversi, eppure ci limitiamo a dire solo "Bene", "Male", "Insomma", "Si tira avanti".Ci sono sempre gli stessi argomenti, perché nessuno si sforza mai di uscire dagli schemi e se per caso qualcuno ci prova, nel 90% dei casi risulta strano.
La mia scuola era a meno di dieci minuti di bici da casa mia. Una distanza troppo breve per andare in macchina, troppo lunga per andare a piedi. ma perfetta se ti andava di pedalare, e a me andava. Mi piaceva proprio, lo trovavo liberatorio. Sentire l'aria sul viso, toccare la velocità, sciogliersi, perdere forma e poi rimontarsi in un altro modo. Quella mattina andavo veloce e mi dispiaceva perché questo m'impediva di guardarmi intorno, di osservare le cose e io adoravo farlo. Riuscii ad entrare in classe in tempo per la campanella, con il respiro affannato, i battiti a mille e la fronte umidiccia. Però ero soddisfatta. Ero felice quando riuscivo a battere il tempo.Correva già il quarto anno di liceo, eppure mi sembrava di averlo iniziato ieri. Da un lato ero contenta di avvicinarmi alla fine e dall'altro avevo paura. Non sapevo cosa sarebbe successo dopo e non avevo nemmeno voglia di pensarci.
Non accadde nulla di particolarmente interessante quella mattina e ormai l'incontro con la donna di sabato pomeriggio l'avevo già archiviato nel dimenticatoio.
Al termine delle lezioni uscii nel piazzale che, nel giro di pochi minuti, si riempì di persone. Era pieno di visi e storie, di chiassosi chiacchiericci e mozziconi di sigarette per terra. C'erano sorrisi amichevoli e occhi che nascondevano problemi. C'erano i miei amici e quelli che si spacciavano per tali. C'era chi non era felice e chi faceva finta di esserlo.
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A 9 passi da te
General FictionIole è una classica studentessa al quarto anno di liceo. Tutto nella sua vita è normale, forse troppo. Annoiata dalla routine quotidiana, passa il tempo nella costante attesa che qualcosa la cambi. Un pomeriggio, uscendo con le amiche, incontra una...