«No Iole, nemmeno se lo leggessi tu ci sarebbe niente».
Certe volte le persone non fanno quello che ti aspetti, non sono come le vorresti e non vivono come vivi tu. Certe volte le persone lanciano corde alle quali ti puoi aggrappare, corde diverse e pericolose. Rimarrai incollato a quelle dolci e profumate, cosparse di miele. Scivolerai su quelle splendenti e brillanti, bagnate dall'olio.
Credo di dover costruire la mia corda, se voglio salire.
Eravamo ancora al parco, seduti sulla panchina a guardarci. O meglio, io guardavo lui, lui non lo so dove stesse guardando. Ero appena stata investita da un discorso pesante, vero e potente. Era una voce piena di rabbia, la sua; ma Thomas non era arrabbiato, lui non si arrabbiava mai. Era sereno e al suo posto, un pesce che nuota nel suo mare, un fiore nel suo giardino.
«Non è vero che non ci sarebbe niente. Io so leggere Thomas». Scosse la testa. Non ci credeva. Non mi credeva.
Si fece scorrere una mano fra i folti capelli castani. Stava per dire qualcosa, lo sapevo, e io dipendevo dalle sue parole.
In quel momento, uno dei cani riuscì ad aprire la porta della recinzione (ancora ci è ignoto come) e iniziò a correre.
«Oh, merda... ROGER! TORNA QUI!»
Thomas balzò in piedi con un'agilità sbalorditiva, poi iniziò ad inseguire il fuggiasco. Prima di allontanarsi del tutto, mi chiuse frettolosamente dentro al parchetto con il resto dei cani, raccomandandosi di tenerli a bada e non farli scappare. Il tutto avvenne nel giro di pochi secondi e io non ebbi nemmeno il tempo materiale per rendermi conto della pessima situazione in cui mi ero cacciata. Ero in trappola, rinchiusa in una gabbia con cinque belve fameliche assetate del mio sangue.
Avete presente la paura, quella vera? L'avete mai incontrata? Quella che paralizza e fa dimenticare che è sufficiente inspirare per restare vivi. Quella che ti riempie la testa di nebbia e mischia gli ingranaggi, lasciandoti senza capacità di ragionamento. Quella che ha l'odore del sudore freddo e il suono degli incubi quando stanno per arrivare. Quando quella ti abbraccia non puoi più scappare, ti avvolge stretto e non allenta mai la presa. L'unico modo per liberarsi è continuare a riempirsi d'aria, soffiando via la nebbia dalla testa, fin quando non si diventa talmente leggeri da scivolarle via. Non possiamo decidere di cosa avere paura e di cosa non averne. È un sentimento profondo e indomabile che nonostante tutto possiamo imparare a gestire. In fondo, è risaputo che il primo passo per affrontarla è imparare a conoscerla.
Coraggio Iole, sono solo dolci e teneri cagnolini, quelle graziosissime bestiole che qualsiasi essere umano ama, devi solo fare amicizia.
«Ma ciao cucciolino, io sono Iole, ti va di essere mio amico?» dissi con tono talmente smielato, falso e patetico da farmi salire il diabete.
Non l'avessi mai fatto.
Quello che doveva essere un innocuo volpino italiano, dal candido pelo bianco, iniziò a ringhiarmi addosso con ferocia, digrignando quei suoi inquietanti denti aguzzi. Risposi al suo abbaiare isterico con un urlo di puro terrore mentre, con un balzo repentino, volai sulla panchina, unica fonte di salvezza. Gli altri simpaticoni a quattro zampe, dopo aver fiutato l'inconfondibile odore della mia paura, decisero giustamente di aggregarsi al coro del loro amico, iniziando così a deliziarmi con una celestiale sinfonia canina.
«Ok, ho capito, non volete essere miei amici, ora però calmatevi vi prego!»
Esatto, stavo parlando con degli animali che, di sicuro, non potevano capirmi. Chiunque fosse passato da quelle parti in quel momento, mi avrebbe creduta una pazza scappata dal manicomio. Eppure, speravo con tutta me stessa, che qualche buon'anima si palesasse all'orizzonte per invocare il suo aiuto. Mi vibrarono i jeans: di nuovo il cellulare.Alex: Sì sì, conosco Nick abbastanza bene, siete in classe insieme, giusto?
Quello non era certo il momento più opportuno per mettersi a messaggiare con Alex. Cercai di spegnere il telefono per rimetterlo in tasca, ma le mani mi tremavano e lo chiamai per sbaglio. Lui rispose quasi subito e dalla sua voce si capiva benissimo che non si aspettava quella telefonata. In realtà non me l'aspettavo nemmeno io.
La mia risposta aveva come sottofondo il continuo abbaiare dei cani e i miei gridolini di paura quando uno di loro si avvicinava troppo.
«Iole ma dove sei? Che sta succedendo lì?» chiese preoccupato.
Di sicuro non gli avrei mai detto la verità, mi avrebbe riso in faccia. «Sono in piedi su una panchina e ho cinque cani intorno che mi vogliono mangiare» purtroppo non ero mai stata capace di dire le bugie. Lui ovviamente rise.
«Dai ma sei seria?» mi domandò.
«Ma sei sordo? Non lo senti il casino che fanno? E comunque ciao, è stato un piacere!» riattaccai spazientita. Ci mancava solo che dovessi stare a farmi prendere in giro per telefono, in quelle condizioni.
Non feci in tempo a rimetterlo in tasca, che Alex richiamò.
«Che vuoi?» chiesi con voluta maleducazione.
«Se mi dici dove sei, potrei venirti a salvare».
Assolutamente no, non mi sarei mai umiliata così.
Il cane più grosso ringhiò facendomi sobbalzare.
«Ok, ok, vieni, ti prego sbrigati!»
Era sorprendente come ogni volta la mia testa pensasse una cosa e la mia bocca ne dicesse un'altra. Ad ogni modo, c'era la mia vita in gioco e l'orgoglio andava messo da parte. Gli dissi dove mi trovavo. Lui conosceva il parchetto e fortunatamente non ci avrebbe messo molto ad arrivare. Non dovevo fare altro che aspettare, immobile sulla mia torre, il principe azzurro. Le belve indomabili continuavano a lanciarmi sguardi assassini e io pensai che. chiunque fosse entrato in quel parco, non ne sarebbe uscito vivo. Dopo alcuni minuti che sembrarono infiniti, quasi fosse un miracolo, i cani smisero di abbaiare e un soave silenzio mi abbracciò le orecchie doloranti per il troppo rumore. Le creature scodinzolanti si diressero all'unisono verso l'uscita, dove comparve Thomas con quello che doveva essere Roger. Lo fissai sbigottita. Perché con lui le bestiole erano gentili?
Lui mi guardò con occhi che non riuscii a decifrare e fece qualche passo verso di me senza staccarmeli di dosso. Il suo viso aveva adottato il rossore della fatica ed era contornato da timide goccioline che procedevano verso il basso, attirate dalla forza di gravità.
Il mio principe arrivò in quel momento. Aveva fatto davvero in fretta. «Alex...» fu l'unica cosa che mi venne in mente da dire.
«Vedo che sei stata già salvata».
«No tranquillo, puoi ancora avere l'onore di tirarla giù dalla panchina» intervenne Thomas, tenendo i sei cani al guinzaglio. Poi mi si avvicinò di nuovo, assumendo un'espressione davvero seria e rigida.
«Grazie per aver fatto scappare Roger, rincorrere un cane era proprio quello di cui avevo bisogno. Senza contare che se non l'avessi ritrovato avrei perso il lavoro. Sai Iole, le porte vanno chiuse! Vedi di ricordartelo la prossima volta che entri in un parco per farti i cazzi miei. Anzi, non ci sarà nessuna prossima volta».
Mi vomitò addosso le sue parole pungenti e piene d'odio e io stavo lì in silenzio, continuando a chiedermi che avessi fatto per meritarne tanto. Se ne andò, come faceva sempre, senza darmi la possibilità di dire niente.
E in quel momento li stavo provando, i sensi di colpa.
Ci sono persone che ne hanno troppi e altre che non ne hanno mai. Poi ci sono quelle che li hanno anche quando non dovrebbero averne. Sono come una malattia degenerativa che ti logora pian piano. Senza effetti collaterali, ti distrugge da dentro. Tanti piccoli aghi minuscoli che ti penetrano ogni poro di pelle, tante piccole voci che ti urlano in testa. E gridano e gridano, ma non riesci a farle tacere. Continui a masticare scuse che non puoi dire, perché forse non c'è nessuno che le vuole sentire o magari non esiste qualcosa per cui tu ti debba scusare. Continuo a vibrare e a voler salire sempre più in alto, per trovare la sorgente del fiume e poterla distruggere o quanto meno conoscere e comprendere.
Ma la mia sorgente se ne stava andando, tornava a nascondersi da dove era venuta e io rimanevo lì, impotente, con i miei sensi di colpa. «Sbaglio, o è il tipo che lavora al McDonald?» mi chiese Alex, aiutandomi a scendere dalla panchina.
«Non sbagli, è proprio lui».
«Perché ti parla sempre male?»
«Vorrei saperlo anche io» sospirai.
«Non ne hai nemmeno una vaga idea?»
«Ti va se ne parliamo da un'altra parte? Non voglio più stare qui». Finalmente uscimmo da quel parchetto infernale, camminando senza nessuna meta precisa. Sarei dovuta già essere a casa da un pezzo, così avvisai mia madre, dicendole che avrei fatto ritardo.
«Be' quindi dicevo, non ricordi il momento esatto in cui ha iniziato a trattarti così?» continuò Alex.
«Eravamo molto amici all'elementari, poi ci siamo un po' allontanati, ma è normale, succede a tutti».
«Ed è successo qualcosa di particolare in quel periodo?»
«No, non mi pare».
Perché stavo parlando di questo con Alex? Lui era il ragazzo carino conosciuto al corso di matematica, che poi non mi aveva più rivolto parola. Che ci facevo con lui adesso?
Il nostro discorso andava avanti, ma ad ogni risposta continuavo a chiedermi se stessi facendo la cosa giusta. Sbagliavo a dargli la mia fiducia? Forse sì, o forse no. In ogni caso per questa volta le informazioni che gli avevo dato sulla mia vita, potevano bastare. Dovevo trovare un modo per cambiare discorso, qualcosa che accomunasse entrambi, senza entrare nel privato di nessuno.
«Quindi hai detto che tu e Nick siete amici, come vi siete conosciuti?» Si lanciò in un lungo discorso, arricchito con i dettagli più improbabili, che mi fece render conto di quanto logorroico fosse. Stando a quel che diceva, erano compagni di classe in prima superiore ma erano stati bocciati entrambi e messi in classi diverse. Nick era finito nella mia sezione mentre Alex in C, ma avevano comunque mantenuto i rapporti.
Nonostante il suo essere prolisso, mi faceva piacere parlare con lui. Non c'erano mai momenti morti, silenzi imbarazzanti o disagio di qualche tipo. Continuava a sfornare argomenti su argomenti, senza mai essere troppo scontato. Forse dovevo ricredermi. Forse sotto a quel ciuffo biondo c'era qualcosa d'interessante.
Rimasi con lui fino a tardo pomeriggio e il tempo trascorse senza che me ne rendessi conto.
«Ora devo proprio andare, la carrozza mi attende» dissi, indicando la fermata dell'autobus.
«Mi ha fatto piacere parlare con te».
«Anche a me».
Ci fu un momento d'imbarazzo generale, in cui nessuno dei due sapeva cosa dire o fare per salutare l'altro. Il tutto si concluse quando Alex prendendo iniziativa, mi scoccò un timido bacio sulla guancia. Mentre lui si allontanava, io mi avvicinavo alla cabina dove avrei atteso il mio mezzo. Una ragazza dai capelli rossi stava fumando una sigaretta, appoggiata a un palo e, nel frattempo, mi guardava.
Aveva la pelle bianchissima e probabilmente molto delicata, un mucchietto di minuscole lentiggini appena abbozzate e due occhioni marrone dorato. Aveva un viso angelico e ingenuo, che però camuffava con un look total black e numerosi piercing. Mi costringevo a orientare lo sguardo in qualsiasi direzione non fosse la sua, ma ero curiosa di sapere se stesse continuando a fissarmi. Ogni volta che i miei occhi cedevano a quest'istinto incontrollabile, incrociavano inevitabilmente i suoi e la cosa iniziava a darmi particolare fastidio. Tirai fuori gli auricolari dalle tasche con nonchalance, me li misi alle orecchie e iniziai ad ascoltare la musica sperando di isolarmi dal mondo. Lei mi esaminava, soffiando il suo patetico fumo verso di me. Ero davvero al limite della pazienza, ma dovevo resistere fino all'arrivo dell'autobus. I minuti passavano, io m'innervosivo e lei non demordeva. Quando la darkettona rossa ebbe finito il suo cilindro cartaceo, dopo aver ciucciato fino all'ultima goccia di catrame, si alzò e mi sorrise. La guardai con gli occhi di satana, per farle capire che era meglio se restava al suo posto. Evidentemente doveva essere stupida, perché subito dopo, mi si avvicinò.
«Ciao cara, io sono Clara».
Rose e viole, io sono Iole. Avrei davvero voluto risponderle così, ma riconosco che non sarebbe stato il migliore degli approcci.
«Iole, posso chiederti perché mi fissi da quando sono qui?» le domandai senza farmi troppi problemi.
«Scusami, è che ti ho vista con Alex e volevo conoscerti, ma prima dovevo finire la sigaretta».
Chiaro, le sigarette prima di tutto.
«Ah e perché vuoi conoscermi?» la mia voce in quel momento era un bel minestrone di antipatia, superiorità, pena, disgusto, il tutto condito con un pizzico di perplessità.
«Be' sei la sua ragazza o sbaglio?» mi chiese iniziando, molto educatamente, a masticarmi una gomma in faccia.
Ma i fatti tuoi?
«No, è solo un amico».
«Ah, per fortuna, allora sono ancora in tempo. Io lo conosco e credimi, non mi fiderei di lui fossi in te».
Allora per fortuna che ti ho incontrata, fata madrina.
«E perché non dovrei?»
Il mio autobus arrivò in quel momento e fummo costrette a interrompere il discorso. Lei tirò rapidamente fuori dalla borsa una penna, mi afferrò il braccio e iniziò a scriverci dei numeri.
«Se ti va di parlarne, chiamami. Magari ci prendiamo un caffè».
Durante il tragitto per tornare a casa mi capitò di pensare ad Alex e a quanto conoscere le persone sia importante. Eppure, quand'è che abbiamo la certezza di conoscerle davvero? Insomma, qualche anno fa avevo una certa opinione di lui e qualche ora fa, dopo averci passato un pomeriggio, ne avevo già un'altra. Adesso però era arrivata Clara e voleva farmela cambiare ancora. Quella darkettona rossa non mi piaceva, ma forse dovevo parlarle di nuovo prima di affrettare giudizi. Ero circondata da tanti punti di domanda, tante persone di cui non sapevo nulla. Vogliamo parlare di Christian? Chi l'avrebbe mai detto che aveva una ragazza? E Thomas allora? Da quando faceva tutti questi lavori?
Ormai era come nuotare in un mare senza fine. Annegavo pian piano e sembrava che nessuno volesse tirarmi un salvagente. Continuavano a ricoprirmi d'acqua, a mescolarmi nel sale e, ogni volta che credevo di vedere terra, arrivava una nuova onda a riportarmi al largo. Bevevo il mare e mi ubriacavo con esso, senza avere nemmeno allucinazioni di un faro a darmi conforto. Avevo l'incessante tentazione di aggrapparmi a qualcosa, ma tutto intorno a me era liquido, privo di forma o sostanza, e il tentativo di farlo mi faceva sprofondare. Mi domandavo se sarei finita inghiottita dall'oceano, o se sarebbe arrivata una barca a soccorrermi. E se questa barca esisteva, chi avrei trovato a bordo, a guidarla?
Pigiai sul bottone dello stop e l'autobus accostò, come avevo richiesto. Era la mia fermata.
STAI LEGGENDO
A 9 passi da te
General FictionIole è una classica studentessa al quarto anno di liceo. Tutto nella sua vita è normale, forse troppo. Annoiata dalla routine quotidiana, passa il tempo nella costante attesa che qualcosa la cambi. Un pomeriggio, uscendo con le amiche, incontra una...