Capitolo 16 - Nessuno può aiutarmi

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Nessuno può aiutarmi

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Camminai lungo il marciapiede barcollando da una parte all'altra come un'ubriaca la domenica all'alba. Vomitai un paio di volte durante il tragitto, fortunatamente le strade erano deserte. Non c'era anima viva, o almeno credevo.

Mi voltai con sguardo confuso e rimasi ferma ad osservare la macchina davanti a me, simile a quel ferrovecchio dove io ed Alec eravamo in quel dannatissimo giorno. Vidi Michael dal vetro del finestrino laterale e Gisel seduta dietro, forzai un sorriso. Non mi sentivo ancora pronta per esprimere quelle emozioni che mai, nella mia vita, avrei provato nonostante lo avessi già fatto.

«Cosa ci fai qui?» chiese stupito.

«Non si vede?» gli risposi con tono arrogante stringendo la mano libera in un pugno. Ero ancora arrabbiata con mia madre, e se Michael aveva intenzione di riportarmi a casa, si sbagliava di grosso.

Niente avrebbe potuto calmarmi.

«Sali in macchina, ti riporto a casa».

«E farmi sgridare da mamma? Neanche tra un milione di anni!»

«Non ti lascerò girovagare per la città da sola, Tessa, ti conviene salire!» ribatté ed io mi voltai incrociando le braccia, facendo i capricci come una bambina di quattro anni che desidera una bambola.

Poi, il suo sguardo si posò su quelli che erano diventati stracci e li guardò arrabbiato e afflitto allo stesso tempo, rendendosi conto di quello che mi era appena successo in quel viale. Ero ferita e piena di lividi, i miei vestiti erano strappati e sporchi di fango e del mio sangue, e un paio di braschiature sul basso ventre e sul fianco ben visibili – dal momento che mi avevano anche abbassato i pantaloncini per mostrarlo meglio.

Sembravo uno zombie appena uscito da un film horror, il che era raccapricciante.

«Sali e non dire altro!» alzò la voce facendomi sobbalzare, ed io obbedii senza opporre resistenza. Passai davanti al cofano, per poi aprire la portiera e salire sulla trappola infernale davanti a me. Chiusi la portiera e la macchina subito dopo ripartì.

Tenevo stretta la stoffa della mia felpa ridotta a brandelli per colpa di due scimmie dal cervello senza neuroni. Fermandosi ad un semaforo rosso, davanti ad un incrocio, Michael mi scrutò dalla testa ai piedi osservando le ferite profonde e ancora fresche, mentre continuavo a piangere dal dolore tenendo le ginocchia in gola, nascondendo il volto. Non potevo fare altro. Il mio corpo era come un peluche squartato da un cane rabbioso, dolorante e senza alcuna sensibilità, pieno di ferite.

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