• VIII: Cenere e metallo

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Dopo, si diventa un pugno di cenere e tutto è finito.
-Luigi Capuana-



Quando riacquistò i sensi, delle voci roche e divertite gli dissero che si trovava dentro al Carcere Imperiale di Promontorio delle Rondini e che presto lo avrebbero interrogato. Davanti ai suoi occhi vedeva solo rosso, nero e bianco e non ebbe nemmeno la forza di muovere le labbra per chiedere cosa diavolo stava succedendo.
Interrogarmi... per cosa?, si chiese. Era come se avesse le orecchie tappate e la bocca ostruita dal cotone: era indifeso e spacciato, senza via di fuga.
Solo in quel momento si rese conto con disperata rassegnazione, che non avrebbe mai più rivisito né sua sorella, né l'amica.
Non avrebbe più abbracciato il suo corpicino e non l'avrebbe più fatta ridere. Niente più baci e giochi passati davanti al camino. Niente più sorrisi e battute.


Mi dispiace, Englantine, ripeté nella sua mente mentre sentiva dentro di lui il cuore frammentarsi in briciole di dolore. Mi dispiace Siggy. Mi dispiace così tanto...
Continuarono a spingerlo verso una destinazione a lui sconosciuta, probabilmente una cella e ad ogni passo, attraverso la iuta del sacco sulla sua testa, Caleb riusciva a scorgere solo gli uomini ai suoi lati e qualche muro che sorpassavano in fretta; nelle orecchie, il battito assordante del proprio cuore non faceva che stordirlo ancora di più.


Si sentì l'acuto cigolio di un cancello aprirsi, poi qualcosa di duro lo colpì in faccia. Un calore bianco gli salì alla testa. Sarebbe stato dolore se l'adrenalina non gli stesse scorrendo come acido nelle vene. Le Maschere strapparono via le braccia e lo gettarono a terra. Sbatté la tempia contro il suolo ma si portò velocemente una mano alla testa per togliersi il sacco.
Un piede affondò nel suo stomaco, strappandogli di nuovo l'aria dai polmoni, mentre gli uomini sopra di lui imprecavano, tempestandolo di calci. Boccheggiando e tossendo, cercò di proteggersi, ma qualcuno lo afferrò per i capelli e gli sbatté la testa contro un ginocchio.


Un grido di dolore gli esplose in bocca. Sentì il sangue colare sul suo viso come acqua e accecarlo. Una mano enorme lo afferrò per la nuca di nuovo, facendolo ringhiare di dolore e gli legarono le braccia e le gambe, triarono dolorosamente verso l'esterno. Caleb strinse i denti per il dolore acuto ai muscoli troppo tesi.
«Bene bene» disse una voce secca. «A quanto pare un piccolo e lurido Rigido come te ha qualcosa di speciale.»
Un polpastrello calloso percorse i marchi sulle sue braccia e il giovane tentò di dibattersi, ma era completamente immobilizzato.
Sentì sopra di sé gli uomini armeggiare con qualcosa di metallico e l'aria cominciò ad essere troppa nei suoi polmoni, e senza accorgersene iniziò ad ansimare contro il tessuto ruvido.
Una mano gli strappò dal viso il sacco e lui dovette socchiudere gli occhi per la luce che gli ferì la vista annebbiata. Gli tolsero anche il bavaglio di cuoio restando quasi nudo davanti ai loro occhi.


Un volto abbronzato e con una folta barba scura gli si parò davanti, in ginocchio; l'armatura nera e scintillante che catturava la luce delle lanterne. Gli occhi simili al vetro si socchiusero sospettosi nel guardarlo e nell'osservare gli strani segni che solcavano ormai da un anno la sua pelle, senza alcuna spiegazione.
Poi sorrise. Un sorriso perfido e pieno di promesse dolorose, riservate solo ed esclusivamente per Caleb.
«Allora, Rigido» mormorò per non farsi sentire dai suoi compagni, la voce fatta da veleno puro. «Dove sono?»
Lui cercò di corrugare le sopracciglia ma appena una profonda vampata di dolore gli attraversò il viso, ci rinunciò.
«Dove sono... chi

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