1.capitolo

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"Muoviti, ragazzina, devi andare a scuola!" la voce di mio patrigno risuonò dal piano inferiore, spezzando il silenzio della mia stanza.

Con un gemito soffocato, mi sollevai dal letto, sentendo il dolore pungermi ogni volta che il mio corpo si muoveva. Le ferite sulla schiena erano ancora lì, evidenti, e facevano un male terribile. Mi alzai con fatica, le gambe tremanti, e mi diressi verso il bagno.

Guardandomi nello specchio, vidi il riflesso delle mie ferite: tagli profondi che ancora sanguinavano. Alcuni erano slabbrati, uno spettacolo che mi provocava disgusto. Stringendo i denti, iniziai a pulire con uno straccio bagnato, sussultando ogni volta che la stoffa toccava la pelle.

Mi chiamo Luna Niteh. Ho sedici anni, capelli neri con ciocche blu e viola intrecciate che terminavano con piume attaccate a cordicelle. I miei occhi erano argentati, un riflesso di qualcosa che non riuscivo a spiegare. Tornai nella mia camera, mi vestii rapidamente: indossai una maglietta nera a maniche lunghe, un paio di jeans neri, una felpa lunga e delle Vans rigorosamente nere.

Presi il mio zaino, infilai il cellulare e le cuffie in tasca e scesi al piano inferiore con passi esitanti. Corse fuori di casa senza voltarmi indietro.

Dopo circa dieci minuti di strada, arrivai davanti alle porte della mia scuola. I miei passi mi condussero direttamente in classe, dove scelsi il banco più lontano possibile, cercando di nascondermi agli sguardi dei compagni. Non volevo attirare attenzioni indesiderate.

La professoressa di inglese entrò in classe, appoggiandosi con sicurezza alla cattedra. "Oggi con noi ci sarà un nuovo alunno," disse, e tutti si sistemarono nei propri posti.

Pochi secondi dopo, un ragazzo muscoloso con i capelli neri e gli occhi celesti entrò nella classe. Era... bello, o almeno abbastanza da farmi distogliere lo sguardo. La professoressa indicò il suo posto con un gesto: "Lui è Aaron Blake. Puoi sederti vicino a Luna."

Con un gesto distratto, si mise il suo zaino a terra e si sedette accanto a me. La lezione cominciò, ma non riuscivo a concentrarmi. Sapevo che sentivo il suo sguardo puntato sulla mia figura. Quel senso di osservazione mi metteva sempre a disagio, anche se non riuscivo a spiegarmi il perché.

La campanella suonò: era il cambio dell'ora. Ora sarebbe toccato chimica, un'altra lezione lunga e pesante.

Presi le mie cose e mi alzai dal banco, ma appena varcai la soglia, qualcuno mi afferrò il polso. Sentii un brivido di paura: se fosse stato Carl, sarebbe stata la mia fine. Mi girai di scatto, ma non era lui. Era Aaron.

"Scusa, ma non so dove si trova l'aula di chimica," disse con un tono pacato.

"Ci stavo andando anche io," risposi.

Lasciandomi il polso, mi seguì fino alla nuova aula. Entrammo velocemente, appena prima che il professore ci rimproverasse per l'ennesimo ritardo.

Durante la lezione, mentre cercavo di mantenere l'attenzione sugli appunti, la mano finì su una delle fasciature: sentii qualcosa di umido. Guardando, vidi che era sporca di sangue. La nausea mi salì in gola.

Alzai la mano. "Mi scusi, prof, non mi sento tanto bene. Posso andare in infermeria?" chiesi con voce fragile.

Il professore mi guardò per qualche secondo. "Vai," disse con un tono indifferente.

Uscendo dall'aula, mi sentii osservata da Aaron e dagli altri compagni, ma non avevo scelta. Mi diressi verso l'infermeria, bussando alla porta con un senso di ansia crescente. Dopo alcuni secondi, la signora Marta mi aprì.

"Entra, cara," disse gentilmente, facendomi accomodare. Mi fece sedere su un lettino. "Puoi alzare la maglia?" chiese con voce rassicurante, avendo già capito.

Alzai la maglia, mostrando le bende sporche.

"È successo di nuovo?" chiese.

Annui. Mi tolse le bende e iniziò a disinfettare le ferite. Ogni tocco mi fece stringere i denti per non urlare. Mi guardò con un'espressione seria. "Questa è profonda. Ti consiglio di andare in ospedale per i punti."

Mi porse un biglietto. "Chiedi del Dottor Santini. Dagli questo, lui capirà," continuò. Annuii, stringendo il biglietto con la mano.

Mi sistemai la maglia e uscii dall'infermeria. I corridoi erano deserti. Mi incamminai verso l'ospedale, con le cuffie nelle orecchie e una playlist casuale per cercare di calmarmi.

Dopo circa mezz'ora di cammino, arrivai all'ospedale e mi dirigetti verso il bancone.

"Mi scusi, devo incontrare il Dottor Santini. È possibile?" chiesi con voce debole.

La donna dietro al bancone mi indicò la strada con un gesto. "Seconda porta a sinistra," disse con tono gentile.

Seguendo le indicazioni, trovai la porta, bussai e fui accolta da un uomo con capelli castani e occhi azzurri.

"Ciao, siediti," disse, indicando la sedia. Leggemmo il biglietto insieme. "Capito, vieni con me," continuò, conducendomi verso un lettino.

La sua voce fu rassicurante, ma quando alzò la maglietta per esaminare le ferite, un senso di disagio mi colpì. Gli aghi mi spaventarono, ma questa volta non avevo scelta.

Mi somministrò un anestetico e sistemò la ferita con cura. Quando finì, disse: "Hai perso molto sangue. Dovresti rimanere in osservazione."

Non volevo, ma il dolore era insopportabile. Uscendo dall'ospedale, mi sentii debole, le gambe che mi cedettero prima che la visione diventasse scura.

La  Figlia di AnubiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora