Tutto cominciò il pomeriggio di un sabato qualunque. Stavamo ultimando i preparativi per la selezione di un concorso canoro per bambini. Le mamme e i papà, più preoccupati ed emozionati delle proprie creature, affollavano lo studio televisivo pronto per la registrazione. Era la prima puntata di quel programma e rappresentava per il sottoscritto un ritorno al video dopo due anni di lontananza. Avevo fatto il giramondo come reporter per una grande agenzia televisiva, viaggiando in lungo e in largo e buttandomi nel lavoro a testa bassa per dimostrare quanto valevo in quella veste. Sapevo perfettamente, però, che non erano i sogni di gloria o di fama ad avermi spinto verso quella direzione. Era piuttosto il desiderio di annullarmi nel lavoro e nella fatica per dimenticare un'amara storia d'amore, finita e fallita dopo sei lunghi anni di convivenza. Lavoravo come un'ape matta, non per sete di denaro, ma per affogare i ricordi di un amore svanito in un solo colpo e crollato come un castello di carte, messo alla prova dal primo debole soffio. Non per denaro, ma per amore. C'è chi lo fa per soldi, chi per passione... io, invece, lo facevo per amore. L'importante era annientarsi nel lavoro e ricacciare indietro le memorie. Due anni interi in giro per il mondo e ora, guarito da quella storia, avevo deciso di fermarmi per ritornare alla vita tranquilla di una cittadina di provincia accanto alla mia famiglia, a quelli che un tempo erano gli amici, per plasmarmi secondo le vecchie abitudini. Per due anni avevo rifiutato i ricordi dell'amore rinunciando anche a qualunque possibile divagazione di natura erotico-sessuale-complicante per ritornare ad essere l'uomo che tutti stimavano e conoscevano: allegro, sorridente e (a volte) anche finto deficiente.
Quel sabato, la mente era occupata dal nuovo impegno: non era certo facile muoversi tra tanti bimbetti canterini e, soprattutto, non era facile districarsi tra tanti genitori che avevano in mente un'unica idea, quella di vedere vincitore il proprio pargolo. Ero emozionato anche io come uno scolaretto. Le ultime due settimane le avevo trascorse preparando i testi per la trasmissione e consigliandomi spesso con mio fratello Riziero sul comportamento più idoneo per l'occasione. Nome particolare e raro il nome di mio fratello, più grande di me, come età e come testa. Mi era sempre piaciuto chiamarlo "Rizzi" con quel diminutivo che derivava dai nostri giochi d'infanzia e dalla mia cattiva assuefazione, allora, al suo nome così strano e così difficile da ripetere. Lui era un maestro elementare, uno degli ultimi maestri di questo mondo, visto che la professione andava sempre di più assumendo la tipologia "al femminile" dell'insegnamento, e quel diploma di maestro elementare guadagnato negli anni passati lo rendevano ai miei occhi quasi come un padre, più che un fratello maggiore. Rizzi era stato un punto di riferimento nella mia infanzia e gioventù. Era lui che mi insegnava nuovi giochi, costruendomi con pazienza anche alcuni giocattoli, magari banali, ma che riuscivano sempre ad attirare la mia curiosità e fantasia. Nonostante avesse sei anni in più, ci somigliavamo come due gocce d'acqua e, con il crescere, quella somiglianza aumentava di prepotenza. Stessa corporatura, naso e taglio della bocca uguale, occhi grigioverdi per entrambi. In comune avevamo anche la passione per la squadra di calcio e tutti e due da piccini sognavamo di diventare dei portieri, rinnovando le gesta e le parate memorabili del magico Bacigalupo del grande Torino. Mio fratello maggiore era stato sempre un punto di riferimento per me e, in quel momento, lo diventava ancora di più attraverso i consigli che emergevano dalle nostre pacate discussioni. Come mi sarei dovuto comportare con i bimbi in quell'impegno che, a guardare bene la mia professione, sembrava così fuori luogo? Avrei dovuto fare la vocina deficiente e dire: "Chee carinooo, come ti chiami? Vuoi salutare la mamma, ti piace andare a scuolina?" Oppure avrei dovuto usare un tono più distaccato e professionale come quello che usavo abilmente in altre occasioni televisive, ignorando che a competere erano solamente dei marmocchi?
-Cerca di essere te stesso- mi ripeteva Rizzi -i bambini sono molto più intelligenti di quanto amiamo pensare: capiscono la situazione, il tuo disagio e anche la tua forza e a modo loro si comportano di conseguenza. Cerca di essere naturale con loro come riesci ad esserlo con i grandi.- Ma perché cavolo avevo accettato quella parte come presentatore? Io, che ero abituato a competizioni motoristiche e a storie di piloti, che ci stavo a fare in mezzo ai bimbi canterini? Amo i bambini, mi piacciono da matti e ci starei affogato in mezzo tutto il giorno. Mi piace tornare piccolino, buttarmi a terra a pancia in sotto e giocare con i loro balocchi. Amo raccontare le favole e inventarne di nuove, ascoltare le loro fantasie di un mondo incantato e ancora pulito. Forse, dentro di me lo spirito di Peter Pan non è mai morto e aspetta sempre l'occasione buona per uscire fuori di prepotenza, per spassarsela come quando portavo i calzoni corti.
Fu la prima persona che vidi appena entrato nello studio di registrazione. Mi colpì stranamente la dolcezza del suo viso, una dolcezza singolare, mista ad una tristezza appena accennata, che si tenta di nascondere e che pure traspare sotto il trucco di donna. La fissavo intensamente senza mai staccarle gli occhi di dosso. Mi accorgevo di sfogliarla avidamente come si fa con un libro che ci appassiona oltre misura. Ero affascinato da quella donna sconosciuta, dalla figura esile, dal suo viso di bambina, dalle sue labbra incorniciate di rosso, dalle gambe magre, dalle mani affusolate e strette sul grembo. In mezzo a tutte quelle mamme vedevo solo lei. Ammaliato dal suo volto eppure, stranamente, non suscitava in me sentimenti erotico-sessuali-complicanti: era semmai un desiderio di protezione. Sì, proteggerla e coccolarla, come si farebbe con un cucciolo trovato abbandonato per strada, bagnato e spelacchiato.
Uno alla volta i bimbetti canterini salivano in pedana per cinguettare la canzoncina imparata a memoria, eppure io continuavo a fissare quella donna. Non era bellissima tanto da tagliare il fiato, però non perdevo occasione per guardarla, dimenticandomi di tutto quello che accadeva nello studio. Era come fissare una vecchia foto in bianco e nero che ci appartiene, ma che non ricordiamo, né come e né quando abbiamo scattato. Chiara mi sembrava una donna già conosciuta in passato: per quanto mi sforzassi non riuscivo però a ricordare né dove, né come e né quando. C'era qualcosa di strano in lei. Aveva una bambina di sei anni, giusto? Quindi doveva essere anche sposata e, ovviamente, avere anche un marito? Giusto! Il Fatto incomprensibile era che l'uomo, che avevo individuato come tale, non le sedeva al fianco, anzi si limitava a gironzolare per lo studio freddamente con una macchina fotografica in mano. Non era accanto a lei, come tutti gli uomini in quella sala stavano facendo, con le rispettive compagne. Con lei non aveva dialogo e neanche i più banali scambi di opinione su quanto accadeva.
Chiara, così come era entrata nella mia vita, in quel pomeriggio di marzo, ne uscì. Due ore e mezza di registrazione e non ero riuscito neanche a rivolgerle la parola durante le pause di regia. Appena un timido saluto, una fugace stretta di mano e si confuse tra le decine di persone che si accalcavano su di me, per i complimenti di fine trasmissione. Pacche sulle spalle da parte dei papà, baci dai bimbi canterini e asettiche strette di mano con le mamme. Anche a Chiara avevo stretto la mano ma in quell'istante avrei voluto che quel contatto le confidasse tutto l'intreccio di pensieri che la sua presenza aveva scatenato in me. Avrei voluto fermarla, spiegarle quanto ero rimasto affascinato da quella sua dolcezza strana... ma io non sono mai stato così sfacciato. A volte, mi domando se lo faccio apposta oppure sono un tonto vero! Lo dico apertamente: preferisco attaccare, ma poi finisco sempre per difendermi. Anche con lei era andata così: avrei voluto quando invece l'avevo lasciata uscire in silenzio, soffocando le mie sensazioni, come mele sciroppate in un vaso di vetro.
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Per favore, non lavarmi la caffettiera
Lãng mạnChiara mi fissava in silenzio; cercava dentro la sua mente le parole giuste per riprendere quel dialogo che avevo interrotto. Si alzò dalla sedia ed iniziò a togliere lentamente i resti della colazione dalla tavola. - No, Chiara. Per favore, non lav...