Prologo

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Domenica, ore 17.30
Jan scendeva lo stretto sentiero che dal bosco di faggi si snodava tra curve in ripida discesa e corti rettilinei
pianeggianti, al paese di Colleborghino Vistalago, un pugno di case affacciate sul laghetto omonimo e
arroccate sulla fiancata del Monte Piramide, una modesta vetta di circa mille metri nell'Appennino Tosco-
Emiliano. Quante volte aveva attraversato quel sentiero per raccogliere funghi, o semplicemente per una
passeggiata, gustando la solitudine come fosse una sorsata di bibita fresca.
Ora, le sue spalle reggevano il peso non indifferente di uno zaino, contenente qualche provvista avanzata,
un coltellino svizzero, una maglia di riserva e un buon chilo di porcini strappati con estrema delicatezza al
morbido tappeto di borraccina e foglie, che è tipico del bosco. Ogni tanto le sue mani sfioravano la sottile
trama lucida delle foglie dei carpini, che a migliaia lo ricompensavano mostrando tutte le loro sfumature di
verde. I piedi, racchiusi in comode scarpe da trekking, danzavano agili ed esperte sul terreno accidentato e
sconnesso, reso scivoloso, a tratti, da piccole infiltrazioni di acqua dolce.
Jan, con gli occhi fissi sul sentiero, deviò un attimo lo sguardo alla sua sinistra, dove in una piccola cornice
formata dai rami degli alberi, scorse i tetti rossi delle case, pochi a dire il vero, che sembravano salutare il
suo ritorno con ammicchi di tegole. Il tonfo secco di un tuono nelle vicinanze, salutò il suo ingresso in
paese, che avveniva, come sempre, quando il sentiero, terminando, lasciava il posto alla grigia e dura
certezza della strada. Jan s'incamminò dunque verso destra, dove lo accolse la silenziosa facciata rosa chiaro
della prima casa, quindi s’immerse nel centro di Colleborghino, come un nuotatore che senza paura, dalla
riva, si tuffa nelle acque conosciute del mare frequentato da sempre.
Silenzio. Un incredibile e intatto silenzio si levava tra le case, i viottoli e nella piazzetta che abbracciava la
strada. Un silenzio blu, così lo avrebbe definito, se lui avesse potuto o dovuto dargli un colore. Nessuna
forma di vita si stagliava in quel silenzio, fatto di case immobili e giardini abbozzati, di usci aperti e finestre
spalancate, di stradine sterrate che salivano e scendevano deserte verso altre abitazioni.
Desolazione. Jan ascoltò il canto degli uccelli tra le querce, chissà se loro avevano visto, chissà. I suoi occhi
si spostarono da una casa all'altra, da una cosa all'altra e poi al cielo, dove l'azzurro di una giornata calda di
giugno aveva lasciato il posto alla pioggia. Jan rimase fermo ad assaporare il gusto amaro di quel silenzio,
che gli penetrava nella gola come il fiele assaggiato da bambino, o come un caffè che aveva dimenticato di
zuccherare.
Jan deglutì quel silenzio liquido che si era impossessato del paese, ora lo avrebbe definito innaturale,
disgustoso e bianco. Jan si sentiva come l'unico sopravvissuto ad una catastrofe. Riprese a camminare con
ansia crescente verso la sua casa, che distava da lì solo qualche centinaio di metri.
Le nubi riempivano il cielo, il loro pianto era acqua fresca sulla pelle; la loro voce, un brontolio insistente di tuoni.

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